Recensione del 2 Maggio 2019. Stiamo vivendo un passaggio decisivo in cui la modernità ultima, postera di se stessa, getta la maschera e disvela il volto.
Trasumanar significar per verba non si porìa. Non si può spiegare a parole il senso dell’oltrepassare la condizione umana. Così risponde Piccarda Donati a Dante nel III canto del Paradiso, interrogata sull’ esperienza spirituale della visione beatifica di Dio; il Medioevo guardava e pensava costantemente a Dio. Centro della modernità orgogliosa fu l’uomo divenuto adulto, teso verso il progresso. La post modernità, nel suo viaggio verso l’oltre, si spinge più in là. Protendersi oltre l’umano non significa più, come per Dante, trascendere, ma oltrepassare, correre “avanti”. Dall’uomo all’oltre uomo, corda tesa tra l’animalità bruta e l’uomo “aumentato”, fuso, incorporato in un progetto tecnoscientifico che dà i brividi.
Stiamo vivendo un passaggio decisivo in cui la modernità ultima, postera di se stessa, getta la maschera e disvela il volto. La corsa insensata dell’uomo contemporaneo che Paul Virilio chiamò dromocrazia, movimento, velocità come fine, dispiega tutta la sua potenza e illumina un esito lungamente preparato. E’ il primato del divenire sull’essere, la lotta prometeica contro il destino e la natura. Offeso nel profondo di non essere il creatore di se stesso, l’uomo occidentale decreta la vittoria finale di Eraclito. Tutto scorre, panta rei, l’acqua del fiume non è mai la stessa. Eppure sempre di acqua si tratta, ma gli universali vengono negati con ostinazione. Vale solo ciò che si vede, i greci avevano anticipato l’intero corso della civiltà che fondarono.
Il cinico Antistene, antesignano del più soffocante materialismo, negava l’oggettività dei concetti, ridotti a pura soggettività. L’ “idea” platonica era irrisa: vedo il cavallo, non la cavallinità. La risposta di Platone nel Simposio, per bocca di Socrate, fu contundente: hai solo gli occhi del corpo. In principio era il Logos, il Verbo, la ragione rischiarata dalla trascendenza che sconfigge il Caos. Poi irruppe Faust, il febbrile indagatore di conoscenza, e il primato passò all’Azione, il puro fare. Im Anfang war die Tat, in principio era l’Azione. Dovette esserne influenzato Karl Marx, inaugurando la filosofia della prassi tesa a cambiare il mondo, con la forza dirompente dell’XI Tesi su Feuerbach. Suona la tromba della modernità sulla musica della rivoluzione: i filosofi hanno finora interpretato il mondo, si tratta ora di trasformarlo, ordinava l’uomo di Treviri.
Con il supporto decisivo della scienza e della tecnica, che hanno emarginato l’etica e la verità, il tragitto è compiuto. Non ci chiediamo più se qualcosa è bene o male, giusto o sbagliato, ma se è “tecnicamente” possibile, fattibile e profittevole. L’azione di Faust ha inaugurato un’alchimia nuova, in cui la pietra filosofale non tramuta più in oro, ma trasforma, modifica, penetra, trascende la materia per ricrearla. Trans- forma, ovvero ridisegna, rielabora, forgia un mondo continuamente mutante, la cui corsa somiglia a quella di un treno senza macchinista il cui moto accelerato procede verso il precipizio obbedendo a un automatismo impersonale e ingovernabile.
Abbiamo perduto il centro, la forma. Batte in ritirata la storia, tutto è giudicato, morso e digerito con la lente deformante della cronaca, anzi delle news. Dunque, non distinguiamo più la qualità, né sappiamo vedere l’essenziale. La filosofia, antica madre di tutte le conoscenze, degrada in futile gioco di parole per iniziati e cede alla sociologia, che non valuta, descrive; la stessa differenza tra la fotografia o il photoshop digitale e l’arte. Quest’ultima declina in meraviglia, stupefazione, bizzarria e performance. Non è bello ciò che è bello, ma ciò che viene fatto piacere dall’industria del consenso. Applaudiamo l’enorme, l’inaudito, il più grande e più nuovo. Ciò che conta, specie nell’architettura, è la funzionalità: deve “servire” a qualcosa”. Nessuna decorazione è ammessa, dopo Adolf Loos, ma si è perduto il valore del simbolo. La musica rigetta l’armonia e enfatizza il ritmo, la dissonanza, talora degrada in rumore seriale.
Ingegneri muniti di software matematici progettano edifici per aziende, ospedali o palazzi di giustizia perfettamente intercambiabili. E’ il regno della quantità e della contabilità. Ci sarebbe bisogno di un pensiero potente e complessivo per trascendere, “trasumanare” un’era sterile, asfittica, nemica dei simboli. Lo ha compreso un intellettuale non banale, Marcello Veneziani, in Nostalgia degli dei. Citiamo un brano significativo. “Stiamo vivendo, nell’incoscienza del pensiero, una rivoluzione radicale che sta cambiando il senso e il destino dell’umanità. E’ la rivoluzione che marcia verso la neutralizzazione delle identità e delle differenze originarie, la rimozione della natura. La vanificazione degli assetti, i ruoli e i rapporti su cui si è fondata finora l’umanità: la famiglia, i sessi, la procreazione. Siamo procedendo verso una società unisex, ove l’unificazione dei sessi prelude a un’assoluta transitorietà dei medesimi. Ci fissiamo sui superficiali conflitti tra omofobia e omofilia, ma il processo in corso è ben più grande e si racchiude nella parola chiave transgender. Alla radice c’è quello che potremmo chiamare l’horror fati, ossia il rifiuto della realtà, l’orrore e il rigetto di ciò che siamo in natura”.
Questo è il nocciolo del nostro tempo, la guerra al destino, a ciò che siamo per origine e radice. Pretendiamo di autocrearci e procedere verso l’artificiale, che ha perduto la sua connotazione negativa ed evoca al contrario ciò che migliora, moltiplica le prestazioni. L’intelligenza artificiale è l’ultima frontiera. La natura e l’uomo non sono neppure più antiquati – la definizione di Gunther Anders – ma superflui, manichini da rianimare con protesi tecniche. Tutto congiura contro la natura e il destino. Resta, rovesciato in imperativo tecnico, il comando biblico che assegnava all’uomo il primato sulla natura e il creato. La conoscenza, che distingue l’animale umano dagli altri viventi, si trasforma in ossessione; la tecnica fuoriesce dall’ambito delle possibilità e diventa macchina cui non si può sfuggire. I mezzi conquistano lo statuto di fini e sostituiscono il criterio morale.
Il rifiuto della storia è talmente radicale da lasciare increduli, come il rigetto per ogni forma di legame o apertura al soprannaturale. La guerra contro i simboli rimanda a un mondo di nebbia, unidirezionale, in guerra continua con “prima” in nome del presente e di un progresso neppure più definito. E’ un postulato, un’evidenza inderogabile, il dissenso non è ammesso se non come tara mentale, pensiero tardivo. Il libro per fanciulli più noto del XX secolo è Il piccolo principe. In attesa di essere giudicato dal tribunale del genere, del sessismo e della correttezza politica, forse proibito come Cappuccetto Rosso, ne rammentiamo un episodio. A un mercante di pillole destinate a dissetare, il Piccolo Principe chiede perché venda quella roba. La risposta è un perfetto spaccato dello spirito corrente: è una grande economia di tempo; non dovendo più bere, si risparmiano cinquantatré minuti la settimana. La conclusione del principino, la morale della favola, è tagliente come una lama che affonda nella carne viva. “Io, se avessi cinquantatré minuti da spendere, camminerei adagio adagio verso una fontana. “
Proibito. L’obbligo è correre a perdifiato, tanto veloci da non riconoscere più la fontana, se la postmodernità non l’ha già sostituita con un distributore automatico di pillole. Abbiamo abbondonato ogni appartenenza a favore della velocità, della novità a ogni costo, dell’inusitato, afflitti da un nomadismo interiore che diventa movimento purchessia. Chi si ferma è perduto, unico lascito di Mussolini. Affonda la tragica profondità del viaggio in poeti come Dino Campana, commosso tra le brume atlantiche intravvedendo il profilo di terre lontane, sogni inespressi, simboli di inquietudine, prove della nostra piccolezza di fronte all’anima mundi. Fernando Pessoa viaggiatore per mare nell’adolescenza trascorsa tra il Portogallo nativo e il Sudafrica, individuò la condizione dell‘uomo moderno nella metafora della comunità provvisoria dei viaggiatori di un transatlantico: patrioti transitori di una patria incerta che eternamente si sposta nell’immensità delle acque. Un’appartenenza liquida, conclusa dall’approdo.
Non siamo più legati a un luogo, ma a un tempo che sfuma nel presente, l’odiernità eretta a merito, regina ad horas. Moderno è l’aggettivo vincente, che destituisce tutto ciò che si sottrae al presente: al modo odierno, ovvero superiore al passato per indiscutibile postulato (o superstizione?). Rimane inconfessato il rovescio della narrazione, una promessa simile a quella degli innamorati, più di ieri, meno di domani. La lotta contro il destino non risparmia alcuno: donna o uomo si diventa, la scelta è soggettiva, revocabile. Se salta il ticchio, si è italiani la mattina, cosmopoliti a pranzo e americani verso sera. Per l’orientamento sessuale, ampio ventaglio di scelte, i sessi sono tre o trentatré e possiamo sperimentarli a piacimento, transitare, pattinare tra i generi.
Le comunità si trasformano in community virtuali in Rete, gli amici sono quelli che la pensano come noi su qualcosa. Non li conosciamo, ma siamo” amici su Facebook” di chi condivide una passione sportiva, la propensione per un ballo, la preferenza per un cibo. Il mondo, le opere d’arte, i luoghi simbolo della storia e della cultura diventano locations. Fotografiamo noi stessi sullo sfondo delle Piramidi o della Gioconda. Io sono stato lì, un attimo fuggente cristallizzato in uno scatto a beneficio o invidia di qualcuno, in attesa del clic sull’icona del pollice alzato. Mi piace, ma solo adesso e per un momento. Tutto è revocabile, metamorfico, come il Proteo dei greci. L’opinione prevale sulla convinzione, il romantico Heine disse che per costruire le cattedrali ci volle ben altro che un’opinione su Dio. L’emozione per Notre Dame in fiamme declina davanti alle successive breaking news.
Il desiderio prevale sulla realtà, panta rei ma senza una forma, come l’acqua. Ci autocreiamo, ma non siamo fabbri di noi stesi, piuttosto clienti della tecnica, transgender vita natural durante, secondo moda e preferenza. Uomini superflui, esistenze senza storia per eccesso, accumulo. Li tratteggiò Anton Cechov in un racconto, i personaggi superflui, il giudice Zaikin e l’uomo dai pantaloni rossicci, che sono tali e inutili non perché socialmente falliti, ma per la loro incapacità di possedere una personalità. La personalità attiene alla dimensione della continuità, è frutto di ciò che si vuol essere nella vita, è solida, non liquida, soprattutto non è “trans”. Ciò che si è, lo è una volta per tutte, per nascita, vocazione, accettazione di sé, adesione o rigetto a modelli, bildung, ovvero formazione cosciente.
Il destino è sostituito dal progresso. Anch’esso ha finito per deludere, un’aspettativa ansiosa differita nel futuro. Meglio l’istante, il cambiamento continuo, il frammento, il modello ermafrodito globale che si tras-forma, tras- ferisce e tras-corre. Tutto fluisce nel transito, non si diventa ciò che si è (Nietzsche) ma si attraversa mascherati e cangianti un’autostrada eternamente in costruzione, ogni metro un’uscita e una deviazione, l’essenziale è pagare il pedaggio. Conta solo il viaggio, l’origine fa rabbia perché non l’abbiamo scelta “liberamente” noi, l’approdo fa orrore, va differito, sostituito con tappe infinite, vite sempre nuove, finzione o fiction continua. Vale solo il tempo presente, nel quale non c’è spazio per il pensiero (Hegel).
L’origine richiama i principi, rimossi in quanto connettono a ieri e al mondo dei fini, ci si contenta dei “valori”. Ma anch’essi cedono. Non ci sono più i valori, caro signore, sospirano casuali compagni di viaggio. Per forza, sono la concrezione pratica dei principi, resistono i prezzi, traduzione venale dei valori. E’ mistificante la definizione della nostra civiltà come Occidente. Non si tratta di un’indicazione geografica, semmai il luogo di elezione della modernità, del cambiamento, del trans che si fa progetto. Non siamo, noi occidentali, compatrioti, ma contemporanei, i passeggeri provvisori di Pessoa divenuti nomadi in perenne transito anche senza muoverci, naviganti nell’oceano virtuale della Rete, dove possiamo essere uno, nessuno e centomila, mutanti e trans perfetti. Transnazionali, transessuali, trans-persone.
Un movimento artistico di fine Novecento si definì transavanguardia. Anticipatore del postmoderno, si proponeva di attraversare l’arte concettuale, la superiorità delle idee e dei concetti sulla capacità di esprimerle: il contrario dell’arte. Desta stupore il principio provvisorio, irrisolto del concetto di trans: ciò che attraversa. Attraversare significa percorrere, passare da una parte a un’altra. E’, per natura, una condizione intermedia, momentanea, non un fine o un approdo. Ma la natura è il nemico da abbattere, con il suo servitore Destino.
Enea, dopo la sconfitta di Troia, attraversò il mare, fu migrante, oggi diremmo profugo di guerra. Il suo non fu un transito, per quante disavventure abbia dovuto affrontare. Aveva un obiettivo, non era un nomade o un passeggero. Voleva rifondare altrove la sua città distrutta, portò con sé i Penati, gli dèi della casa e della continuità, stringeva nella sua la manina del figlio Ascanio, sulle spalle si caricò il vecchio padre Anchise. Secondo il mito approdò nel Lazio, capostipite di chi fondò Roma. Il senso plastico e commovente del suo transito verso la meta, unione di passato, presente e futuro e apertura al trascendente è restituita in maniera sublime dal gruppo scultoreo di Gian Lorenzo Bernini, più potente, tangibile dei pur pregevoli dipinti di Federico Barocci e dei Carracci. Enea transitava, sì, ma non era un nomade o un criceto che gira in tondo. Si era prefisso un obiettivo, aveva in mente un topos, una meta.
Sgomenta e, dicevamo all’inizio, avrebbe bisogno di una forte confutazione filosofica, spirituale ed esistenziale, il tratto di insuperabile provvisorietà e insieme di assoluta novità di questo tempo trans. Si va, si attraversa, si penetrano muri, si rimuovono ostacoli creando rovine, ingombrando la strada di detriti, ma la corsa è fine a se stessa. O meglio, il fine della transumana, futura umanità – si perdoni l’anafora – è nell’ibridazione drammatica, forse diabolica, con l’artificiale, la macchina, il prodotto tecnico, a scopo di dominio. Lo definiscono uomo aumentato, il simbolo è un cerchio non chiuso con un h (homo) e il simbolo + (più).
E’ la fine dell’umanità come l’hanno intesa tutte le precedenti generazioni. Va compresa, conosciuta, giudicata, decostruita con la stessa acribia applicata dalla distruttiva tassonomia culturale dell’ultimo mezzo secolo. Attraversare, vivere trans: parliamone, finalmente. Non è un destino ineluttabile, tanto meno l’esito naturale della vicenda “progressiva” della nostra specie. Homo sum, humani nihil a me alienum puto, scrisse Lucrezio, il misterioso autore del De rerum natura, la Natura delle Cose. Sono un uomo, nulla di umano mi è estraneo. Umano, appunto, non transumano.
Roberto Pecchioli il 2 Maggio 2019