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Eugenetica Liberale: “Caviale che cammina, morto che fa figli” di Roberto Pecchioli

Recensione del 29 Gennaio 2020. Nell’Università americana del Vermont hanno inventato, anzi creato gli xenobot, robot biologici, cioè viventi, una nuova classe di “artefatti”, costituita da organismi vivi e programmabili.

La scienza corre, purché possa trasformarsi in tecnologia, applicazione strumentale dalla quale trarre profitto. Non c’è una meta, nessun traguardo: solo andare “oltre”. Nessuna riflessione morale o dibattito politico, spirituale, sociologico. Nulla; la scienza- sempre più lontana dalla sapienza- corre e basta. La genetica scissa da ogni etica, sottomessa esclusivamente alla ragione economica mascherata da avanzamento di conoscenza, rivestita dall’immancabile retorica del progresso, si impadronisce del campo. Una notizia desta riflessioni che inquietano. Nell’Università americana del Vermont hanno inventato, anzi creato gli xenobot, robot biologici, cioè viventi, una nuova classe di “artefatti”, costituita da organismi vivi e programmabili.

Sono state prelevate e assemblate cellule viventi da embrioni di rana. Il lavoro principale lo ha compiuto un algoritmo; la matematica, se non si sostituisce ancora a Dio, rende concreta la figura del Demiurgo, l’essere divino dotato di capacità creatrice e generatrice. Descritto da Platone nel Timeo, è inverato dagli scienziati nei loro laboratori sempre più simili a fucine di alchimia transumana. E’ stata creata la prima macchina vivente. Sono stati “raccolti” – usano proprio questa espressione- embrioni di un anfibio, ma il risultato non è una rana, bensì un minuscolo “aggregato” (mancano le parole!) di 700 micron, circa cinque globuli rossi umani. Sopravvivrà per settimane, è in grado di muoversi e soprattutto di curare le proprie ferite. E’ questo, sembra, il movente finale dell’esperimento. A regime, aiuterebbe i farmaci a raggiungere la loro destinazione e potrebbe dare una mano nello smaltimento di rifiuti tossici.

Non si tratta di un robot tradizionale, se il termine può essere attribuito a un apparato così moderno, ma nemmeno di una specie animale nuova, creata nella fucina di Vulcano di ricercatori pagati dal sistema economico industriale. Incerti se attribuirgli uno statuto di creatura o di artefatto, si limitano a indicarlo come organismo vivente e programmabile. Sinistra prospettiva, nascere per essere programmati ovvero servire a qualcosa o qualcuno, essere a disposizione, non liberi. Hanno fatto passi da gigante dal 2007, quando si è cominciato a dibattere sulla possibilità di modificare liberamente il genoma degli organismi, a imitazione di certi processi informatici avanzati di codifica dei computer. 

Non è un videogioco e neppure fantascienza. Il salto logico, il balzo cognitivo è assai insidioso: non si ritiene più, per motivi di sfruttamento e dominazione, che sia necessaria una conoscenza approfondita del funzionamento dei processi biologici. Conta poterli modificare per fini predeterminati o, per serendipità, ottenere risultati non previsti, ma sfruttabili sul mercato della tecnologia. Non si può ostacolare il Demiurgo chiamato Progresso, si avanza nella speranza di poterne ricavare o costruire qualcosa. Pare che a Silicon Valley, l’antro dei prodigi, lo chiamino black boxing, una scatola nera incomprensibile oggi, ma che può essere utile all’homo faber dall’illimitata volontà di potenza.

Nel caso degli xenobot, le novità assolute, che lasciano stupefatti e preoccupati, sono due: la creazione, poiché di questo si tratta, non è più opera umana, ma l’esito di un algoritmo che ha imitato il processo evolutivo. La seconda è la natura del tutto nuova del risultato: un essere vivente che è un artefatto, che ha il DNA delle rane ma non è una rana. Una certa inquietudine sembra sfiorare gli scienziati-stregoni del Vermont; non hanno saputo dare altro nome al frutto delle loro ricerche che “caviale che cammina”. Osserva Pietrangelo Buttafuoco che l’incapacità di dare un nome è un segnale simbolico forte. L’esserino non è tra quelli di cui Dio insegnò i nomi ad Adamo.

Il mondo si trasforma in un immenso sistema operativo senza che ci poniamo più domande. Tace la filosofia, sopraffatta dall’ammirazione per la scienza o impegnata in grotteschi giochi di parole, non riesce a risvegliarsi dallo stupore la riflessione religiosa e spirituale, la morale è in tutt’altre faccende affaccendata. Avanza solo la dismisura, il titanismo di un uomo che non sfida più Dio- l’Essere in cui non crede- ma la natura. Da homo ludens che gioca con le cose, a faber, artefice onnipotente in grado di padroneggiare, piegare, sottomettere le forze della natura sino a creare specie nuove e ricreare se stesso, un Oltre Uomo o trans uomo finalmente perfetto. Prometeo ha sciolto ogni catena, il vaso di Pandora stavolta ha svelato lo xenobot, letteralmente robot straniero. E straniera, estranea è una scienza che incede a passo di carica e travolge tutto senza domande, senza prudenza, animata solo da una volontà di potenza misurabile in denaro e dominio.

Gli argini etici, biologici, intra ed extraspecifici non esistono più: la scimmia nuda e intelligentissima va veloce, vergognandosi dei suoi limiti. La genetica e la cibernetica sono le punte avanzate di processi di cui non si conosce la fine e dei quali la schiacciante maggioranza dell’antiquata specie umana non sa nulla. Deve applaudire e utilizzare i nuovi strumenti. Strumenti, appunto, anche se vivi. Intelligenza artificiale, chip sottocutanei, nanorobotica, crionica, programmazione mentale, progetti per resuscitare i morti, xenotrapianti, clonazione, tecnosesso, uteri artificiali, super soldati. E’ il Cyberuomo descritto da uno splendido, perturbante libro, di Enrica Perucchietti.

Oggi la notizia è lo xenobot “caviale che cammina”, domani chissà. Si fa strada Internet delle Cose (IOT), ovvero la capacità degli oggetti di interagire con noi attraverso la Rete. Un’opportunità meravigliosa? Forse, ma qualcuno ha inventato il contatore elettrico universale per tracciare ogni comportamento domestico, gesto, attitudine, azione. Elaborando dati e metadati, perverrà ad una profilazione talmente sofisticata e pervasiva che la nostra vita personale, intima, i nostri pensieri saranno a disposizione degli algoritmi, nuovi dei dell’Olimpo, in grado di elaborarne dati, compravenduti sul mercato, offerti a un Potere con tutte le lettere maiuscole.  Sarà come essere hackerati h. 24 da un pirata onnipotente, proprietario dell’algoritmo definitivo, Dio e Demiurgo.

La genetica, intanto, non si ferma, alla ricerca di vie sempre nuove, il cui obiettivo è la moltiplicazione del mercato e la costituzione di una schiavitù “dolce” impossibile da scalfire. Costruire ponti, abbattere muri, non è solo il programma politico della globalizzazione, è anche un obiettivo della nuova genetica. Perché non utilizzare lo sperma dei morti? Qualcuno doveva pensarci. Detto fatto, si sono messi al lavoro alcuni scienziati britannici. La loro motivazione è sconcertante: gettiamo via tanti organi umani post mortem, è moralmente riprovevole. Il magazzino di pezzi di ricambio umani deve essere implementato, l’assortimento completato con il seme dell’uomo. I nuovi dottor Caligaris hanno un argomento inoppugnabile, al tempo del Mercato misura di tutte le cose e della triste ragione strumentale: la raccolta di sperma dai morti permetterà di coprire la domanda, data la scarsezza di donazioni.

La legge della domanda e dell’offerta è il feticcio indiscusso. Siamo sulla terra per scambiare razionalmente beni e servizi. Il principio, risalente all’utilitarismo inglese, Bentham, Adam Smith e gli scozzesi, vale anche da morti, mentre si diffonde per povertà la piaga della vendita di sangue e di organi tra vivi, e si affitta l’utero con la pudica, altruistica denominazione di “gestazione per altri” (GPA). Nell’articolo pubblicato dalla prestigiosa rivista Journal of Medical Ethics (etica…), i ricercatori affermano che estrarre spermatozoi utilizzabili da una persona morta è eticamente giusto se esiste la volontà espressa di donarli. Un quadratino in più nei moduli del cosiddetto testamento biologico. “Non vediamo motivi per non alleviare la sofferenza di chi è colpito da infertilità, una condizione che va considerata una malattia”. Il seme dell’uomo può portare a fecondazioni e nascite di bimbi sani se estratto entro 48 ore dalla morte.

Finalmente una buona notizia! Basta con la triste donazione o vendita di seme da vivi, lo sperma si può ottenere attraverso la stimolazione elettrica o chirurgica. Non ne vogliamo sapere di più: basta la soddisfazione di sapere che si potrà coprire la domanda prodotta dalla riduzione delle donazioni, dovuta alla proliferazione di prove genetiche in grado di identificare il donante. Il principio responsabilità è escluso da queste misere pratiche di zootecnia, ma c’è la soluzione: dona dopo la morte e non avrai problemi, anzi aiuterai qualcuno e, se la cosa ti preme, assicurerai la continuità della tua linea genetica. Non c’è poi gran differenza, assicurano gli illustri clinici, rispetto alla donazione di un rene. Fingono anche di difendere il concetto di famiglia, travolto, al contrario, dalle tecniche di procreazione artificiale da bestiame d’allevamento.

L’estrazione di sperma da cadavere, assicurano, è una modalità di sopravvivenza, non solo sentimentale, ma del patrimonio genetico. Un medico serbo, che ha realizzato con successo un trapianto di testicoli, ha dichiarato al New York Times: bisogna smettere di gettare gli organi nella spazzatura. Dell’uomo, come del maiale, non si butterà niente. E’ l’eugenetica liberale di mercato: economia riproduttiva di scala.

Uno degli strumenti più abili per far credere alle masse cretinizzate che vivono nella migliore dei mondi possibili è evocare continuamente calamità lontane per nascondere gli imbrogli del presente. Chesterton lo denunciò un secolo fa, notando come la paura per il caos comunista in Russia venisse usata per nascondere i guasti del capitalismo. Fanno così per impedire che gettiamo lo sguardo sulle vergogne più sottili dell’ideologia in vigore, il liberalismo progressista e libertario. Se si parla di eugenetica è per condannare, a giusta ragione, certe pratiche naziste, il piano Aktion 4 e altre brutte cose. Eppure, le pratiche e le tecniche eugenetiche non sono mai state più in auge che nel presente; soprattutto non hanno mai goduto di una più ampia accettazione sociale, non di rado entusiasta. Essenziale è essere padroni del linguaggio, della narrazione.

Aldous Huxley sapeva che i padroni del mondo avrebbero utilizzato il condizionamento fin da bambini, la coazione per ripetizione, un metodo di dominio ben più efficace delle prigioni e dei manganelli. Nel Mondo Nuovo immaginava che i principi della produzione di massa venissero applicati alla biologia per creare esseri “migliorati”. Quel miglioramento è presentato oggi come positivo, intrinsecamente buono, segno di progresso, addirittura un diritto in più, quello di autodeterminarsi, decidere, anche nell’ambito delicatissimo della genetica, ovvero della natura biologica costitutiva dell’essere umano.

Ne hanno dibattuto con esiti sconcertanti due famosi pensatori tedeschi, Peter Sloterdijk e Juergen Habermas, dopo una conferenza del primo, dal titolo illuminate di Norme per il parco umano. Sloterdijk affermava l’inservibilità dell’umanesimo tradizionale, obsoleto dopo le scoperte delle neuroscienze, le cui tecnologie “hanno trasformato le vecchie convinzioni sulla natura umana.” Affascinato, Sloterdijk, un pensatore di frontiera interno al pensiero liberale con venature nicciane, ha difeso la nuova genetica, con la bizzarra motivazione che la cultura umanistica ha fallito ed è cresciuta l’attrazione del uomo contemporaneo per la barbarie. Pertanto, non resterebbe altro che usare “altri mezzi” (la manipolazione genetica) per giungere alla domesticazione dell’essere umano, impresa fallita dall’umanesimo intellettuale.

Strana conclusione: per combattere un male, se ne autorizza uno peggiore; in nome di un principio astratto del tutto indimostrato – la civiltà umana come domesticazione progressiva- si giustifica una manipolazione della nostra natura che non è affatto un obiettivo dell’umanesimo.  Habermas ha risposto alle conclusioni di Sloterdijk riconoscendo che gli interventi genetici minano la comprensione morale della specie umana. Sottoporre a processi di manipolazione genetica rompe la soggettività della biografia di ciascuno. Se i genitori – o altri – possono scegliere caratteri genetici determinati, potrebbero proclamarsi coautori della biografia dei loro discendenti, oltrepassando il diritto di questi all’autodeterminazione.

Dispiace dover giudicare ridicolo l’argomento dell’ultimo francofortese. Anziché attaccare alla radice il principio di autodeterminazione, ormai debordato in autocreazione, mette una toppa peggiore del buco. Approva ogni aberrazione dell’autodeterminazione umana, trasformata in diritto indiscutibile a ogni follia, capriccio, eccentricità, dall’aborto banalizzato, alla transessualità, all’eutanasia, passando per il libero cambio di sesso e di “orientamento sessuale”. Nulla di strano: furono i francofortesi di ieri, in particolare Adorno e Marcuse, a mettere nel mirino ogni forma di autorità, di limite. Il ragionamento di Sloterdijk è più logico, per quanto si tratti della logica del male. Habermas ha tuttavia la lucidità di denunciare l’emergere di un’eugenetica liberale, che, a differenza dell’eugenetica totalitaria di ieri, non si manifesta come cupa imposizione disumanizzante, ma con la maschera di un euforizzante avanzamento scientifico.

Il punto è questo: il messaggio esprime una pericolosità infinitamente più grande, dimostrata dalla fascinazione subita da un uomo della levatura di Sloterdijk. La sua filosofia, ed in generale l’intero pensiero moderno che ha eliminato Dio dall’equazione dei suoi eleganti algoritmi, può soltanto proporre rimedi inutili ai disastri che crea.

Non resterebbe che arrenderci alle regole del condizionamento che ci pervade e soccombere, soggiogati, affascinati dall’eugenetica liberale, nello stesso momento in cui condanniamo con orrore gli spropositi del nazismo e del comunismo. Si rivela azzeccata la previsione di Ernest Renan sullo scientismo come religione: “una scienza che sia aperta e libera, che non abbia altri argini se non quelli della ragione, priva di simboli ottusi, senza templi, senza preti, a suo agio nel mondo profano, ecco l’unica forma di credenza in cui confiderà l’uomo.” Ma la ragione ha torto, se privata della tensione morale, dell’anima e dell’amore per la natura e la creatura. La rana non è una rana, ma caviale che cammina, ai cadaveri è spremuto lo sperma per “produrre” figli: la ragione postumana. 

Roberto Pecchioli del 29 Gennaio 2020

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