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La legge dell’acqua di Roberto Pecchioli

Recensione del 10 Febbraio 2018. L’acqua è il primo e più importante dei beni comuni. Non può essere lasciata all’arbitrio dei potentati privati e va sottratta alla logica del profitto.

Giacinto Auriti chiamava “legge dell’acqua” il principio per cui le popolazioni si spostano dove esiste ricchezza. L’acqua è la risorsa naturale più importante: senza di essa è impossibile non solo l’attività economica, ma la vita stessa. La geopolitica afferma che gli scontri politici del futuro prossimo saranno determinati dal controllo delle risorse idriche, in una Terra il cui destino climatico sembra segnato da ondate di siccità e progressiva desertificazione.

Sono note le teorie storiche sulle cosiddette civiltà potamiche, sorte cioè attorno a grandi vie d’acque, come il Tigri e l’Eufrate (assiri e babilonesi), il Nilo (egizi) e l’Indo. Uno studioso del calibro di Karl August Von Wittfogel, nell’ambito della sua teoria sul dispotismo orientale, elaborò il concetto di “civiltà idraulica”. Secondo l’autore tedesco, da millenni la specie umana lotta per regolare e suddividere le diseguali risorse idriche del pianeta. La Cina ha mantenuto per secoli una chiara superiorità rispetto all’Occidente nella costruzione di dighe, canali navigabili e sistemi di irrigazione. I compiti relativi richiesero la creazione di specifiche professionalità scientifiche ed artigiane, nonché la presenza di un’alta burocrazia statale in grado di guidare i progetti e reclutare, generalmente in forme coattive, masse enormi di operai.

Conosciamo tutti le imprese dei Romani, in grado di spostare l’acqua per migliaia di chilometri realizzando anche meraviglie di bellezza architettonica. La civiltà araba medievale eccelse nell’ingegneria idraulica, tanto che l’assetata Andalusia gode tuttora delle imponenti opere realizzate al tempo della dominazione moresca sulla Spagna. Governi lungimiranti e politici del rango di statisti sono quelli capaci di affrontare un problema come quello di regolare le acque e renderle disponibili per i tre usi essenziali: civili, ossia dissetare la popolazione; industriali, poiché molte produzioni necessitano di grandi quantità d’acqua; infine gli usi energetici, imbrigliare le acque per la generazione di energia idroelettrica.

L’Italia ufficiale ignora il problema da decenni, nonostante i moniti degli studiosi e l’evidenza di una fase climatica di siccità e aumento delle temperature. Non serve essere degli esperti per osservare le ricorrenti magre di fiumi come il Po, né per verificare l’enorme diminuzione della portata dei torrenti. La parte più meridionale del nostro territorio mostra già segni di desertificazione. In Sardegna stanno morendo i cavallini della Giara di Gesturi per disseccamento delle fonti, nella Sicilia occidentale alcuni invasi sono ai minimi storici. Una città come Palermo non è approvvigionata regolarmente.

Occorre che la politica prenda atto della serietà del problema e lo affronti. I dati sono sconfortanti ovunque, drammatici nel Sud. Mentre la capacità di captazione di acque non aumenta per mancanza di investimenti, cioè di progetto politico, metà delle acque raccolte non raggiunge i rubinetti delle case, i campi da irrigare e le industrie da alimentare. Le infrastrutture di presa, convogliamento e distribuzione sono vecchie, la manutenzione è scarsa o nulla e in molte zone è la criminalità a decidere chi deve avere l’acqua. In Sicilia e Sardegna esistono invasi ed acquedotti che disperdono fino a tre quarti della risorsa. Altrove, si violenta l’ambiente con lo sfruttamento di falde a profondità sempre più grandi, rubando l’acqua alle generazioni future. Le precipitazioni, inoltre, si concentrano in periodi brevi, diventano più intense e pericolose, per cui non si è in grado di raccoglierle. Molte dighe e pozzi devono essere parzialmente svuotate per consentire un deflusso che non provochi inondazioni.

Ciononostante, la politica non va oltre la (cattiva) gestione delle emergenze. E’ ora di cambiare radicalmente. L’acqua è vita, bisogna prendere atto della realtà e agire di conseguenza. Abbiamo un vantaggio su altre parti del mondo: l’acqua c’è ed è ancora in grado di dissetare la popolazione, sostenere le industrie e contribuire a fornire energia.

Per secoli, la più importante via d’acqua italiana, il fiume Po è stata governata da una specifica autorità. Probabilmente, è necessario tornare a una gestione organica, complessiva e pubblica, dotata di una catena di comando, potere decisionale e visione a lungo termine. Le reti esistenti devono essere sottoposte immediatamente ad un grande piano di ammodernamento che riduca drasticamente la dispersione. Il bilancio dello Stato e degli enti territoriali deve disporre di risorse economiche che permettano interventi rapidi e finanzino le competenze, gli studi, le conoscenze scientifiche e tecniche necessarie. Vanno poi decisi con rapidità strumenti e obiettivi, ad esempio lo sviluppo di tecnologie in grado di recuperare le acque provenienti dalla depurazione. Nel settore del riciclo eccelle Israele, il cui territorio è in larga parte desertico ma alimenta una fiorente agricoltura e riesce a dissetare città di rispettabili dimensioni.

Anche in questo campo, è indispensabile il ritorno della politica, ovvero l’arte del bene comune, e ristabilire il ruolo prevalente delle istituzioni pubbliche a livello progettuale, operativo e gestionale. L’acqua è il primo e più importante dei beni comuni. Non può essere lasciata all’arbitrio dei potentati privati e va sottratta alla logica del profitto.

Serve autorità, decisione, senso del futuro. E’ la legge dell’acqua, ci vuole una classe dirigente, occorre uno Stato.  

Roberto Pecchioli il 10 Febbraio 2018                                                 

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