Recensione del 10 Luglio 2019. Il giro del mondo in 80 giorni di Jules Verne. La storia di un eccentrico gentiluomo londinese Phileas Fogg e della sua ardita scommessa con i consoci del Reform Club: un libro che non avrebbe potuto rappresentare meglio un’epoca.
Tempo d’estate, tempo di lettura anche per chi, nel resto dell’anno, non riesce a sfogliare che poche pagine in mezzo alla corsa della vita. Chi scrive, punitore di se stesso come il personaggio della commedia di Terenzio, predilige i cosiddetti “mattoni”, i testi di storia, filosofia, saggistica, inadatti alla distensione estiva sotto l’ombrellone, o meglio tra le foglie di un albero frondoso in un fresco bosco. Per questo, un mio consiglio di lettura diventerebbe una sorta di autodafé per il malcapitato che volesse seguire le mie indicazioni.
Per rispetto del lettore normale, colto ma interessato anche a un sano relax, ho organizzato un torneo mentale tra libri adatti alla lettura, o rilettura estiva. La finale si è svolta tra due romanzi che più diversi non potrebbero essere: La luna e i falò di Cesare Pavese e il celeberrimo Giro del mondo in ottanta giorni di Jules Verne. Lasciata alle prime brume autunnali la storia di Anguilla che torna nella Langa natale pressoché irriconoscibile dopo vent’anni in America, vince per distacco Jules Verne. Vari i motivi: si tratta di una lettura piacevole, adatta al periodo feriale, amena e coronata dal lieto fine. Altre ragioni sono più serie. Verne fu il fondatore di un genere letterario nuovo della seconda metà del secolo XIX, il romanzo d’avventure ispirato al progresso scientifico, una narrativa chiamata dagli inglese science-fiction. Inventore di personaggi divenuti universali, come il capitano Nemo di Ventimila Leghe sotto i mari, fu anticipatore di suggestioni fantascientifiche nel Viaggio al centro della terra e in Dalla Terra alla luna, storie che precorrono in maniera sorprendente le conquiste dell’astronautica. Seppe altresì trasportarci nel mondo esotico della Russia con Michele Strogoff, l’eroico corriere segreto dello Zar, che suscitò in me un’intensa curiosità diventata amore per la grande cultura russa.
L’altra ragione per cui consigliamo il Giro del Mondo in 80 giorni, celeberrimo anche per le riduzioni cinematografiche, è che la storia dell’eccentrico gentiluomo londinese Phileas Fogg e della sua ardita scommessa con i consoci del Reform Club non avrebbe potuto rappresentare meglio un’epoca, una sensibilità, un’idea della storia che, dal 1873, anno della pubblicazione, è mutata in modo travolgente. Il viaggio di Fogg, ricorda Eugenio Capozzi nel suo imperdibile Politicamente corretto (Marsilio, 2019) “non è altro se non la plastica rappresentazione dell’ormai acquisito dominio della cultura, della scienza e della tecnica europei su ogni cultura. “. Oggi non potrebbe essere scritto un libro simile, e non certo per i tempi e i mezzi assai diversi del presente. Verne fu l’interprete dello spirito europeo e occidentale sorto dal positivismo e dall’ottimismo scientifico: la fiducia ingenua ma sicura nella “compatibilità tra popoli, usanze, religioni, nel segno di un’organizzazione razionale della società, degli scambi economici e commerciali, della democrazia, e in definitiva della libertà individuale” (ibidem). Nessuno metterebbe più nero su bianco una dichiarazione tanto netta sulla superiorità della civiltà europea, l’idea che la sua egemonia si sarebbe risolta in un influsso positivo su tutti gli altri popoli.
Verne fa attraversare a Phileas Fogg e al suo poliedrico maggiordomo, il francese Passepartout, il mondo intero con i mezzi di trasporto più vari. Piroscafi di linea veloci, campioni della nuova navigazione a vapore, treni che sfidano audaci la giungla indiana e le immense distanze nordamericane in una corsa che entusiasmava gli uomini dell’epoca, per la prima volta in grado di abbattere le distanze, ma anche elefanti, vagoni merci e navi da carico nelle cui caldaie finiva persino il fasciame, pur di rispettare i tempi della scommessa. Verne inserì nei romanzi personaggi centrali suoi connazionali, come lo strambo geografo Paganel nei Figli del capitano Grant, altro libro di viaggio basato sulla moderna capacità di percorrere il pianeta attraverso la cartografia e la scienza.
Phileas Fogg è descritto come uomo freddo e privo di emozioni, il tipico inglese della upper class vittoriana, eppure non esita a mettere in pericolo il viaggio e il suo stesso patrimonio per salvare la vedova indiana Auda, destinata a essere bruciata sulla pira del marito defunto. E’ la generosità non di un singolo, ma di una civiltà che si sente superiore e non può ammettere riti e condotte estranee al suo orizzonte culturale. Auda accompagnerà Fogg nel resto del viaggio e infine sposerà l’ex arido uomo d’affari.
Nel libro si respira l’aria del Rule Britannia dell’epoca persino nel personaggio del poliziotto Fix che segue testardo Fogg, convinto che sia il rapinatore della Banca d’Inghilterra, ma soprattutto rivive un epoca in cui era convinzione generale che il progresso tecnico avrebbe prodigato all’umanità solo vantaggi, se saggiamente indirizzato da buoni governanti, animati dallo spirito della civiltà europea vincente, innestata ovunque sul tronco delle culture locali. Rudyard Kipling, autore come Verne di romanzi sbrigativamente considerati per ragazzi, lo avrebbe definito nel 1889 il fardello dell’uomo bianco. A distanza di poco più di un secolo, l’uomo bianco, ribattezzato caucasico, sta diventando un reperto archeologico, paradossalmente per il successo dell’idea del mondo sviluppata nella seconda metà del secolo XIX.
Verne, il cui fascino attraversa confini ed epoche, viene talora indicato come un semplificatore ingenuo di severi argomenti scientifici. La sua seduzione è più complessa; cela dietro le molteplici avvincenti avventure un freddo pessimismo, una profonda sfiducia nell’uomo che si crede imbattibile conquistatore attraverso scienza e tecnica. Ne sono prova la tristezza esistenziale del capitano Nemo, ma anche gli imperdonabili errori geografici del dotto Paganel, la sensazione di straniamento del ritorno a Londra di Fogg, apparentemente in ritardo, prima del colpo di scena finale legato all’astronomia, la direzione del viaggio verso est che ha fatto guadagnare un giorno. Vince la scienza, dunque, ma il fascino segreto della narrazione sta nel divario tutt’altro che pacifico tra realtà e fantasia, nel rapporto ambivalente tra perfettibilità e sapienza dell’uomo moderno.
Temi importanti, seri, ma affrontati con leggerezza e talento narrativo. Il lettore rimane immediatamente coinvolto e anche se conosce la trama e la conclusione attraverso le versioni cinematografiche (indimenticabile quella con David Niven, il migliore Phileas Fogg di sempre) è avvinto in un crescendo di emozioni che restano per sempre nel cuore come i personaggi di Fogg e Passepartout.
All’autore di queste note il Giro del mondo in 80 giorni ha regalato il gusto della fantasia e la nascita di due passioni mai abbandonate, una per la geografia e l’altra per lo studio dei popoli del mondo. Scoprii molti anni dopo la lettura adolescenziale che si tratta dell’antropologia culturale, ma nome e dottrina non contano nulla. Vale il fascino, la seduzione, la gioia della scoperta, l’amore dell’avventura che Jules Verne ha trasmesso a milioni di persone con immutato successo. E’ la definizione di capolavoro, al di là del valore artistico e del giudizio degli accademici, tipi noiosi sempre in cerca del pelo nell’uovo. Phileas Fogg e Passepartout restano, i critici accigliati passano.
Roberto Pecchioli il 10 Luglio 2019, ripubblicato il 01 Agosto 2023