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Il video di Codice Rahner e 13 Domande alla canonista prof.ssa Geraldina Boni

Video con Antonio Bianco e il prof. Daniele Trabucco e 13 Domande alla canonista prof.ssa Geraldina Boni, sulla rinuncia di Benedetto XVI

UNA CANONISTA RISPONDE: LA QUESTIONE UNIVERSI DOMINICI GREGIS. BIANCO, TRABUCCO

13 Domande alla canonista prof.ssa Geraldina Boni,
sulla rinuncia di Benedetto XVI



1) Il Codice di Diritto Canonico in che misura è indispensabile per la vita della Chiesa? Sono possibili casi in cui la realtà richieda un suo superamento?

Gli studiosi di diritto canonico hanno ampiamente discusso sul ruolo della codificazione nella vita della Chiesa. Penso ai numerosi convegni che sono stati organizzati in occasione del centenario della promulgazione del primo Codex Iuris Canonici da parte del pontefice Benedetto XV nel 1917, o al convegno che io stessa ho organizzato a Bologna lo scorso 7 novembre 2023 sui quarant’anni del vigente Codice di Diritto Canonico promulgato da San Giovanni Paolo II nel 1983, al quale hanno partecipato, tra gli altri, il cardinale Segretario di Stato, Pietro Parolin, e il prefetto del Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica, cardinale Dominique Mamberti. Il dibattito della canonistica sul tema oggi è incentrato in particolare sul valore del Codice nell’intensa stagione di riforme di papa Francesco, caratterizzata da una mole imponente di provvedimenti normativi di diversa natura che sembrano metterlo in crisi. Al di là delle posizioni espresse dai singoli studiosi, il Codice si rivela uno strumento sicuramente utile nell’attività di governo pastorale. Occorre tuttavia rifiutare la deriva positivista che snatura l’incidenza e il valore del diritto nella Chiesa: infatti, il diritto canonico non può essere identificato con la sola codificazione, non solo perché vi sono una miriade di fonti normative ad essa complementari che ne sviluppano e integrano i contenuti, ma altresì perché nella tradizione giuridica della Chiesa è indispensabile mantenere ferma la distinzione tra ius e lex, la quale non precede ma segue la realtà regolata con l’obiettivo di dare a ciascuno ciò che gli è dovuto secondo giustizia, in vista della sua salus animae. La legge scritta, anche quella codificata, cede sempre alla giustizia vera veicolata dal diritto divino.

2) Munus / ministerium. In che misura sono sinonimi? Che peso ha l’uso di questi termini sulla rinuncia di Benedetto XVI?

Sulla base dei testi normativi e dei documenti del magistero ecclesiastico la dottrina più autorevole ha sostenuto in tempi non sospetti che i termini munus e ministerium sono in larga parte sinonimi, differenziandosi semmai per sfumature. Basti pensare solamente agli studi, risalenti a oltre trent’anni fa, di canonisti di fama internazionale come il cardinale Péter Erdő e monsignor Juan Ignacio Arrieta. Nessuno invero nega che la rinuncia di Benedetto XVI, letta l’11 febbraio 2013, presenti elementi di ambiguità che potrebbero dare adito a fraintendimenti, come l’impiego nella declaratio stessa di entrambi i termini. Questo, tuttavia, non può giustificare forzature e strumentalizzazioni volte a sostenere che Ratzinger avrebbe rinunciato soltanto all’esercizio attivo del primato. E ciò per diverse ragioni. In primo luogo, si tratterebbe di una decisione contraria al diritto divino che invece postula la rinuncia integrale all’ufficio petrino, cioè a tutte le prerogative ad esso connesse, per la tutela dell’unità della Chiesa. Inoltre, la rinuncia al solo ministerium (e non al munus, come qualcuno teorizza) si rivelerebbe un gesto gravemente dannoso e irresponsabile perché potrebbe mettere in dubbio la validità degli atti del successore: al contrario deve essere assolutamente garantita, pro bono animarum, la continuità dell’azione di governo della Chiesa universale. Questo dettaglio peraltro rivela il ‘corto-circuito’ di questa teoria poiché si potrebbe controdedurre che Francesco eserciti legittimamente il ministerium petrinum proprio per garantire la continuità del regimen Ecclesiae. Da ultimo, non si possono ignorare gli scritti e le dichiarazioni di Joseph Ratzinger ove, in più occasioni, egli ha ribadito la validità della sua rinuncia al papato, promettendo obbedienza al suo successore e riconoscendone la piena legittimità. La decontestualizzazione e la manipolazione di talune affermazioni del ‘papa emerito’, trascurando invece artatamente quelle che, con evidenza, smentiscono certe fantasiose ricostruzioni, sono contegni scorretti e inaccettabili.

3) Non essendoci mai stata nella Chiesa di sempre differenza tra Munus e Ministerium, come mai Giovanni Paolo II la introdusse nel nuovo diritto canonico?

È un’affermazione falsa quella secondo cui sarebbe stato San Giovanni Paolo II a introdurre ‘nel nuovo diritto canonico’ la distinzione tra munus e ministerium. I resoconti dei lavori preparatori del Codex Iuris Canonici sono stati pubblicati già durante il processo di codificazione e ancora oggi i verbali delle adunanze, risalenti soprattutto agli anni ’60 e ’70 del secolo scorso, dei gruppi di studio che si occuparono di specifiche materie sono resi di pubblico dominio nella rivista Communicationes, curata dal Dicastero (ex Pontificio Consiglio) per i testi legislativi: basta consultarli per verificare l’inesistenza di tale contrapposizioni concettuale tra i due termini. Inoltre, va ricordato che l’attuale can. 332 § 2 fu inizialmente inserito nel can. 34 § 2 del primo schema, risalente al 1969, della Lex Ecclesiae Fundamentalis, un progetto volto a predisporre una sorta di “Carta costituzionale” della Chiesa poi abbandonato dal papa polacco: con la conseguenza che alcune disposizioni del progetto medesimo confluirono nel nuovo Codice di Diritto Canonico, tra le quali appunto quella sulla rinuncia all’ufficio petrino. Tra i membri del coetus speciale che formulò il primo schema della Lex Ecclesiae Fundamentalis non vi furono né Karol Wojtyła né Joseph Ratzinger: coloro che sostengono siano stati loro a ispirare e scrivere di loro pugno il testo del can. 332 § 2 dovrebbero perciò dimostrarlo con documenti alla mano, avendo bene a mente che il processo di elaborazione del Codice in vigore è stato davvero partecipato, con il coinvolgimento non solo dell’episcopato mondiale, ma altresì di esperti canonisti e di altre istituzioni ecclesiali (dicasteri della curia romana, università e facoltà ecclesiastiche, conferenze episcopali, superiori di istituti religiosi, ecc.).

4) A riguardo della Universi Dominici Gregis, qual è il suo ambito di applicabilità? Vale solo prima e durante il conclave o può avere valore retroattivo una volta eletto il pontefice?

Il can. 335 del Codice di Diritto Canonico rinvia alle ‘leggi speciali’ emanate per disciplinare i casi di sede romana vacante per morte o rinuncia del papa e di sede romana totalmente (prorsus) impedita. È a tutti noto che il legislatore ha promulgato solo la legge speciale che regola la vacanza della Sede Apostolica e l’elezione del romano pontefice, ossia la Costituzione Apostolica Universi Dominici Gregis del 22 febbraio 1996, in parte modificata da Benedetto XVI con due Motu Proprio rispettivamente dell’11 giugno 2007 (De aliquibus mutationibus in normis de electione Romani Pontificis) e del 22 febbraio 2013 (Normas nonnullas). Per converso, non è stata ancora promulgata una legge che regoli i casi di sede romana prorsus impedita: una lacuna particolarmente grave dell’ordinamento canonico che mi ha indotta a promuovere la costituzione di un gruppo internazionale di specialisti per elaborare un progetto legislativo ad hoc, nel quale si prevede l’intervento del collegio cardinalizio per dichiarare tale situazione eccezionale soprattutto nelle ipotesi di inhabilitas provvisoria o permanente del pontefice (il testo e gli esiti del conseguente dibattito sviluppatosi nella scienza canonistica sono consultabili nel volume liberamente accessibile in rete all’indirizzo internet https://mucchieditore.it/wp-content/uploads/Open-Access/Zuanazzi-Anima-7-OA.pdf). Il presupposto e l’ambito di applicazione della Universi Dominici Gregis risultano chiari: la Costituzione Apostolica suppone o la morte naturale del papa o la sua valida rinuncia, altrimenti non si può ricorrere ad essa. Quanto poi alla sua applicazione, si tratta di una legge speciale in ragione dei suoi destinatari, che sono i cardinali e in specie i porporati elettori non ancora ottantenni i quali partecipano alle operazioni di voto in conclave. L’efficacia della Costituzione Apostolica, pertanto, si esplica e si esaurisce entro il periodo provvisorio di sede vacante che prende inizio con il decesso o la rinuncia efficace del papa e termina con l’accettazione dell’elezione del nuovo successore di Pietro: non è possibile allora affermare che le disposizioni di tale legge speciale possano essere invocate in un momento successivo, persino da parte di fedeli che non fanno parte del Collegio cardinalizio. D’altronde, sono i cardinali i soli protagonisti dell’elezione papale e ad essi il legislatore affida la responsabilità di risolvere e superare eventuali situazioni di impasse che potrebbero derivare da anomalie riscontrate nel corso delle votazioni e comprometterne la validità.

5) A riguardo della facoltà del sommo pontefice di rinunciare al munus petrino (versione in latino), il canone 332.2 cita chiaramente il termine munus e non ministerium utilizzato invece da BXVI nella sua Declaratio; questo può rendere nulla la rinuncia come eventualmente riportato al n. 76 della UDG?

Non ci sono i presupposti per chiedere la dichiarazione di nullità della declaratio di Benedetto XVI in conseguenza dell’impiego del termine ministerium. Anzitutto, va ricordato che il can. 332 § 2 prescrive come condizioni di validità che la rinuncia sia fatta liberamente e sia debitamente (rite) manifestata, cioè sia in qualche modo resa pubblica a tutta la Chiesa. Chi lamenta la carenza di una rigida e pedissequa applicazione di quanto previsto nel can. 332 § 2 del Codice di Diritto Canonico, giungendo alla conclusione che la rinuncia sarebbe invalida in quanto il pontefice non avrebbe rinunciato al munus, dimentica che si tratta di un atto giuridico adottato dall’autorità suprema della Chiesa che del tutto legittimamente può utilizzare un vocabolo piuttosto che un altro purché sia palese e inequivocabile la sua intenzione di abbandonare l’ufficio petrino: intenzione, questa, ribadita a più riprese da Joseph Ratzinger negli ultimi scorci del suo pontificato e sino a poco prima della sua dipartita, avvenuta il 31 dicembre 2022. In applicazione, peraltro, dei criteri di interpretazione individuati nel can. 17 del Codex Iuris Canonici, va tenuto conto del testo complessivo della declaratio, ove il pontefice precisa che il conclave «ad eligendum novum Summum Pontificem ab his quibus competit convocandum esse» poiché la «sedes Romae», con la rinuncia, «vacet». Mi pare incontestabile la manifesta contraddittorietà di alcune tesi, avanzate da chi pretende di distinguere, sul piano tecnico-giuridico, il munus dal ministerium ma poi interpreta la parola ‘vacet’ non secondo il suo significato proprio di ‘vacante’, bensì secondo un significato del tutto nuovo e improprio, di ‘vuota’, per giustificare la presunta sede impedita in cui sarebbe stato posto Joseph Ratzinger. Anche l’inciso ‘sedes Romae’ va inteso correttamente, essendo nella declaratio un’espressione equipollente a quella di ‘Sede Apostolica’, come peraltro si evince dalla lettura della Costituzione Apostolica Universi Dominici Gregis. Non si comprende poi per quale ragione il n. 76 di questa legge speciale dovrebbe determinare la nullità della rinuncia di Benedetto XVI, posto che tale norma si riferisce espressamente alla sanzione comminata in caso di violazione delle regole elettorali da parte dei cardinali riuniti in conclave. Ciò è stato chiarito dal cardinale Mario Francesco Pompedda, autorevole canonista deceduto nel 2006, il quale riferendosi proprio al n. 76 puntualizzava «che, in applicazione del can. 10 CIC (cf. can. 1495 CCEO), introduce qui una nullità insanabile, che perciò renderebbe irrita l’elezione, nel caso di contravvenzione delle procedure sopra descritte» (cfr. Commento alla Pastor Bonus e alle norme sussidiarie della Curia Romana, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, 2003, p. 359), ovverosia delle procedure per l’elezione del papa di cui al capitolo V (De electionis explicatione) della parte II (De electioni Romani Pontificis) della Costituzione Apostolica: non alludendo affatto perciò all’atto giuridico di rinuncia che dà inizio alla vacanza della Sede Apostolica.

6) È vero che il Papa in sede impedita perde il ministerium ma mantiene il munus?

Qualora si avallasse la tesi – che reputo, come anticipato, del tutto non condivisibile – secondo la quale il munus è distinto dal ministerium, tale affermazione non troverebbe comunque riscontro nella legislazione canonica vigente. Infatti, il can. 412 del Codice di Diritto Canonico, che introduce la disciplina della sede episcopale impedita, stabilisce che «Sedes episcopalis impedita intellegitur si […] Episcopus dioecesanus plane a munere pastorali in dioecesi procurando praepediatur»: è evidente come, nei casi di impedimento dovuto a circostanze esterne o soggettive, il vescovo non perda il ministerium ma risulti impossibilitato a esercitarlo concretamente in via provvisoria o permanente. In altri termini, la sede impedita non pregiudica la titolarità sul piano giuridico della potestas iurisdictionis del vescovo, mentre per garantire la continuità del governo della diocesi la legge elenca nel can. 413 i soggetti che devono, ad interim, farsene carico.

7) Esistono condizioni per cui il concetto di “sede impedita” possa applicarsi al Papa? Se sì, lo è al caso di Joseph Ratzinger dopo la Rinuncia?

L’istituto della sede impedita dovrebbe trovare applicazione non solamente nei confronti del vescovo diocesano ma anche del romano pontefice, in quanto anche questi potrebbe trovarsi in una situazione di prigionia, esilio, confino o inabilità, secondo le fattispecie elencate nel can. 412 del Codice di Diritto Canonico per la sede episcopale impedita. Ciò nonostante, come già ricordato, a oggi c’è una lacuna nell’ordinamento giuridico della Chiesa poiché manca una legge speciale che regoli la sede romana prorsus impedita. Quindi i sostenitori di certe azzardate teorie non hanno un riferimento normativo preciso sul quale fondare le proprie argomentazioni. E comunque sia, andrebbe rettamente compresa la situazione di sede impedita, evitando ermeneutiche distorte che ne stravolgano la portata e la confondano con l’istituto giuridico della rinuncia. Infatti, la rinuncia è un atto giuridico che deve essere posto liberamente; la sede impedita, invece, è una situazione che il titolare dell’ufficio ecclesiastico subisce contro la sua volontà e alla quale l’ordinamento canonico attribuisce determinati effetti giuridici nel momento in cui essa è accertata da chi ne ha competenza. Risulta perciò un paradosso insostenibile asserire che Benedetto XVI si sarebbe, con la lettura dello scritto di rinuncia, ‘auto-dichiarato’ o ‘auto-esiliato’ in sede impedita: ciò che non è evidentemente possibile, in quanto la causa dell’impedimento deve essere subita e pertanto la sede impedita dovrà essere necessariamente dichiarata da altri, come ad esempio dal Collegio dei cardinali (come, del resto, è stato proposto nel progetto di legge di cui sopra si è riferito).

8) Si è parlato a vario titolo di “papato dimidiato”. È uno scenario fondato? Ha qualche relazione possibile con l’atto di Benedetto XVI del 2013?

Per garantire l’unità della Chiesa dobbiamo necessariamente confidare nel principio di certezza del diritto e in particolare nella centralità dello ius divinum, che esclude categoricamente l’ipotesi di una diarchia o di un ‘papato dimidiato’ nella Chiesa. Si deve di conseguenza evitare di sfruttare indebitamente alcune dichiarazioni di Joseph Ratzinger che invece, prese nel loro insieme, sottintendono la validità della rinuncia (basti pensare a quanto affermato nell’ultima udienza generale del 27 febbraio 2013: «Il “sempre” è anche un “per sempre” – non c’è più un ritornare nel privato. La mia decisione di rinunciare all’esercizio attivo del ministero, non revoca questo. […] Non porto più la potestà dell’officio per il governo della Chiesa, ma nel servizio della preghiera resto, per così dire, nel recinto di san Pietro»), come lo stesso Ratzinger ha ribadito in seguito più volte. E nemmeno si deve approfittare di alcune – invero infelici e davvero inopportune – dichiarazioni di colui che è stato il suo segretario personale, monsignor Georg Gänswein, quando ad esempio si è riferito a «un ministero allargato» per cui, a seguito della rinuncia, coesisterebbero «un membro attivo e un membro contemplativo». D’altronde, la costituzione dogmatica Lumen gentium sulla Chiesa del Concilio Vaticano II sottolinea che il papa è «il principio e il fondamento perpetuo e visibile dell’unità di fede e di comunione» (n. 18): sarebbe davvero clamoroso che il vescovo di Roma smentisse tale postulato ecclesiologico frantumando l’unità della Chiesa mediante la suddivisione dell’ufficio petrino in due ‘entità’ distinte, il munus e il ministerium, così da fomentare incomprensioni, fratture e turbamenti nel popolo di Dio. Lo stesso Ratzinger, del resto, nell’omelia pronunciata nella messa di insediamento alla cattedra episcopale romana del 7 maggio 2005 aveva dichiarato che il papa «non è un sovrano assoluto il cui pensare e volere sono legge»: e proprio queste parole escludono che una persona così umile come Ratzinger abbia voluto coscientemente scomporre il papato, per chissà quali più o meno oscure finalità, disponendo di una realtà che tuttavia resta indisponibile per diritto divino.

9) Da molte parti si fa cenno al ruolo che i cardinali dovrebbero avere nel dichiarare nulla la rinuncia di Benedetto XVI e, di conseguenza, altrettanto nulla l’elezione di Francesco. In che misura i cardinali possono avere un ruolo di supervisione “a valle” dell’elezione e del riconoscimento sulla legittimità di un Papa? Queste ipotesi hanno qualche fondamento, in generale e nello scenario attuale?

Benedetto XVI, ponendosi nel solco della tradizione canonica – basti pensare al noto precedente della rinuncia di Celestino V nel 1294 –, lesse la declaratio di rinuncia dinanzi a parte del Collegio cardinalizio convocato in occasione di un concistoro ordinario pubblico per la canonizzazione di alcuni beati. Con quel gesto il pontefice tedesco intese non solo rendere edotta tutta la Chiesa della sua decisione durante una solenne cerimonia pubblica, ma anche ribadire l’importanza dei cardinali, ai quali, come noto, compete da quasi mille anni la provvista dell’ufficio petrino per modum electionis. E proprio in merito alle contestazioni sulla validità dell’elezione del nuovo pontefice, i porporati potrebbero eventualmente sollevare dubbi durante il conclave, in particolare prima che l’elezione stessa si perfezioni con la sua accettazione da parte della persona prescelta. Non è dunque possibile evidentemente sollevare in un momento successivo perplessità che potrebbero lacerare la Chiesa e la sua unità interna: è significativo, al riguardo, che nessuno degli oltre cento cardinali elettori riunitisi nel marzo 2013 nella Cappella Sistina abbia mai rilasciato dichiarazioni in tal senso. Seguendo la stella polare del bonum commune Ecclesiae, vi è la sede istituzionale appropriata – cioè il conclave – per segnalare possibili anomalie inficianti la validità dell’elezione, come del resto prevede la Costituzione Apostolica Universi Dominici Gregis che responsabilizza, uti singuli, i cardinali che partecipano alle operazioni di voto. Altre iniziative, come quella di inviare dopo diversi anni dall’inizio del pontificato di Francesco dossiera tutti i cardinali nominati sino al pontificato di Benedetto XVI, sono del tutto prive di fondamento e sconvenienti. E, allo stesso modo, è manifestamente pretestuosa e pure erronea la recente istanza presentata al Tribunale dello Stato della Città del Vaticano per chiedere l’accertamento della nullità della rinuncia di Benedetto XVI dell’11 febbraio 2013. Un’istanza che dimostra come i suoi promotori siano digiuni di nozioni canonistiche, in specie della distinzione fondamentale tra Stato della Città del Vaticano e Santa Sede e perciò tra ordinamento vaticano e ordinamento canonico: infatti il Tribunale vaticano, essendo un organo di giustizia statuale, difetta di giurisdizione per pronunciarsi su questioni prettamente canoniche così delicate, le quali, peraltro, non potrebbero nemmeno essere sottoposte alla cognizione dei tribunali della Sede Apostolica atteso il principio Prima Sedes a nemine iudicatur (can. 1404).

10) Sarebbe possibile, per considerare nulla e invalida la rinuncia di Ratzinger, considerare un eventuale errore ostativo, ovvero che Benedetto XVI abbia dichiarato di dimettersi pur non volendolo in coscienza?

Ritenere che Benedetto XVI abbia commesso un errore ostativo mi sembra un’asserzione temeraria e del tutto inverosimile. Come già ripetuto, al fine di valutare la genuinità della declaratio dell’11 febbraio 2013 è necessario anche fare riferimento ai comportamenti di Joseph Ratzinger e quanto da lui stesso dichiarato negli anni successivi sino alla sua morte. Stando alle immagini, immortalate dai media di tutto il mondo, del suo viaggio in elicottero a Castel Gandolfo del 28 febbraio 2013, oppure a quanto affermato nei suoi scritti, nelle risposte date, per esempio, ad alcuni porporati e giornalisti, oppure ancora a quanto riportato dal suo biografo ufficiale Peter Seewald, è ragionevole desumere che Benedetto XVI non abbia sostanzialmente simulato la propria volontà al cospetto della Chiesa universale, dichiarando di rinunciare all’ufficio petrino e, al tempo stesso, escludendolo nel suo animo. Non si renderebbe, del resto, giustizia al pontefice tedesco, che ha sempre brillato per rigore, trasparenza di comportamenti, chiarezza concettuale e soprattutto per sensibilità verso la salvaguardia dell’unità della Chiesa visibile: un’esigenza, questa, che difficilmente lo avrebbe sospinto irresponsabilmente a ricorrere all’utilizzo di un linguaggio anfibologico in uno scritto così importante come quello della rinuncia.

11) È inoltre vero che Benedetto XVI non ha mai firmato la rinuncia al ministerium dopo le ore 20:00 del 28 febbraio?

Come noto, si può implicitamente ricavare dalla lettura del can. 332 § 2 del Codice di Diritto Canonico che la rinuncia all’ufficio petrino produce immediatamente i suoi effetti nel momento in cui si soddisfano i due requisiti di validità della libertà e della debita manifestazione della rinuncia stessa. Benedetto XVI, invece, ha introdotto un elemento accidentale dell’atto giuridico, cioè un termine iniziale (dies a quo) a partire dal quale la rinuncia avrebbe esplicato i suoi effetti. Si tratta di un elemento non previsto nella legislazione canonica ma non per questo proibito: il papa ha potuto farlo in modo del tutto legittimo, posto che, avendo bene presente la distinzione tra potestà d’ordine e potestà di giurisdizione, la rinuncia è un atto giuridico che determina la cessazione di un ufficio ecclesiastico di governo. E, a ben vedere, questa decisione ha forse consentito alla Chiesa di ‘metabolizzare’ una decisione così grave e straordinaria che non era assunta da secoli dal successore di Pietro. La dottrina canonistica non ha mai dubitato della legittimità di quanto stabilito da papa Ratzinger, che peraltro ha seguito la prassi ormai decennale della Santa Sede sulla rinuncia dei vescovi diocesani, che questi devono presentare al compimento dei 75 anni, come stabilito dal can. 401 § 1 del Codice. Essa viene accettata dal romano pontefice, ma apponendo la clausola ‘nunc pro tunc’: in questo modo, l’accettazione della rinuncia viene comunicata al vescovo ma diviene efficace solamente dopo, nel momento in cui cioè la Santa Sede dà notizia della nomina del nuovo vescovo e dunque, nella diocesi interessata, non si insedia il governo interinale previsto nei casi di sede episcopale vacante. Infine, occorre precisare che Benedetto XVI non era obbligato a sottoscrivere o a ‘ratificare’ la sua rinuncia alle ore 20.00 del 28 febbraio 2013: del resto, si tratta di una decisione adottata dalla suprema autorità della Chiesa che, puntualizza il can. 332 § 2, non deve essere accettata da nessuno. Non si comprende quindi per quale motivo il pontefice avrebbe dovuto in qualche modo confermarla: non vi è nessun obbligo stabilito nella legislazione canonica ed era noto a tutta la Chiesa universale che la rinuncia avrebbe prodotto i suoi effetti non immediatamente, cioè già al momento della lettura della declaratio nel concistoro ordinario pubblico dell’11 febbraio 2013.

12) Riguardo infine l’elezione di Bergoglio, cosa pensa della possibilità del vizio di consenso avanzata da monsignor Viganò? E il fatto che sia stato eletto alla quinta votazione nello stesso giorno (mentre il CDC ne prevede al massimo quattro), può ritenersi invalidante?

Anche la tesi dell’invalidità dell’atto di accettazione dell’elezione, il 13 marzo 2013, da parte di Jorge Mario Bergoglio, a Sommo Pontefice della Chiesa cattolica per presunto vizio del consenso, ossia con l’intenzione di non essere papa e di nuocere al bene della Chiesa, mi sembra, al di là della sua stravaganza, giuridicamente infondata. Né la Costituzione Apostolica Universi Dominici Gregis né le norme generali sulla provvisione dell’ufficio ecclesiastico per elezione nel Codice di Diritto Canonico, infatti, contemplano tale ipotesi, invero prevista in ambito matrimoniale laddove il consenso sia simulato da uno o entrambi i nubendi con atto positivo di volontà (cfr. can. 1101 § 2): e ciò in quanto il consenso nel matrimonio canonico è un “atto personalissimo” che deve essere libero, consapevole e in particolare integro, in modo che non sia escluso il matrimonio stesso oppure un suo elemento o proprietà essenziale. La possibilità di contestare la legittimità di un pontefice a motivo di vizio del consenso peraltro metterebbe a rischio l’unità della Chiesa e implicherebbe un accertamento alquanto ostico sulle effettive intenzioni del pontefice regnante. L’esigenza di evitare pretesti per l’impugnazione della validità dell’elezione pontificia peraltro ispira la ratio del n. 78 della Universi Dominici Gregis, laddove esclude la nullità dell’elezione simoniaca del pontefice: e a tale ratio si potrebbe ricorrere anche per neutralizzare l’incidenza della fattispecie prospettata da monsignor Viganò. Quanto, infine, alla quinta votazione che si tenne il 13 marzo 2013, come ho dimostrato nel saggio intitolato Sull’elezione di Papa Francesco e pubblicato nel 2015 nella rivista, ora da me diretta, Archivio giuridico Filippo Serafini, tale scrutinio non ha determinato l’invalidità dell’elezione di Francesco. In quella occasione, infatti, replicai alle tesi del giornalista Antonio Socci, che riprese l’informazione riportata dalla collega argentina Elisabetta Piqué (e ricevuta dallo stesso Bergoglio) secondo cui in una votazione lo scrutatore si accorse che il numero delle schede non corrispondeva a quello degli elettori: 116 anziché 115, in quanto pare che uno dei cardinali elettori avesse deposto nell’urna due foglietti, uno bianco e l’altro con il nome del prescelto. La votazione fu quindi dichiarata nulla e ripetuta a norma del n. 68 della Universi Dominici Gregis. A parere di Socci, tuttavia, la votazione non andava ripetuta poiché avrebbe dovuto applicarsi il n. 69 della Costituzione Apostolica, secondo cui non si deve dichiarare nulla la votazione se nello spoglio si trovano due schede compilate in modo da sembrare compilate da un solo elettore, le quali se riportano lo stesso nome vanno conteggiate per un solo voto, altrimenti, se riportano due nomi diversi, nessuno dei due voti può ritenersi valido. Ciò nonostante, nel libro di Elisabetta Piqué Francesco. Vita e rivoluzione si precisa che lo scrutatore rilevò la mancata coincidenza tra numero di schede e numero di elettori «Dopo la votazione e prima della lettura dei foglietti», cioè nella fase di conteggio dei voti regolata dal n. 68 e non in quella successiva di spoglio, regolata invece dal n. 69. Dunque, la legge speciale sul conclave è stata correttamente applicata, invalidando la votazione che tamquam non esset: di conseguenza, se è vero che il 13 marzo 2013 si svolsero concretamente cinque votazioni, è altrettanto vero che sotto l’aspetto giuridico quelle valide furono quattro, in perfetta conformità a quanto prescritto nel n. 63 della Universi Dominici Gregis.

13) In vista di un prossimo conclave, vi sono questioni più urgenti di affrontare che si spera siano prontamente risolte?

Ci sono alcune questioni che dovrebbero essere affrontate con senso di responsabilità da papa Francesco. Basti solo pensare che nel corso dell’attuale pontificato si sono diradate le riunioni dei cardinali, denominate concistori o plenarie, e ciò non permette loro di confrontarsi su questioni riguardanti il bene della Chiesa e di conoscersi reciprocamente. Si tratta di un aspetto apparentemente marginale che invece potrebbe incidere in misura rilevante sulle congregazioni generali e sul conclave che si aprirà a seguito della morte o della rinuncia del pontefice regnante. Vi è poi la necessità di definire con chiarezza la condizione giuridica del cardinale Giovanni Angelo Becciu, prefetto emerito del Dicastero (all’epoca Congregazione) delle cause dei santi, di cui il papa accettò il 24 settembre 2020 la rinuncia ai «diritti connessi al Cardinalato». Becciu potrà partecipare oppure no, se non ancora ottantenne, alle operazioni di voto per la scelta del nuovo successore di Pietro? È un punto che occorrerebbe chiarire per evitare contestazioni. Il porporato peraltro è al centro di una clamorosa vicenda giudiziaria che a oggi lo vede condannato, insieme ad altri imputati, dal Tribunale di prima istanza dello Stato della Città del Vaticano con sentenza, datata 16 dicembre 2023, pronunciata tuttavia in manifesta violazione dei principi del giusto processo, come ho tentato di dimostrare in un parere scritto in collaborazione con il Professor Manuel Ganarin e il Dottor Alberto Tomer dell’Alma Mater Studiorum – Università di Bologna e pubblicato in una rivista telematica. Si tratta di un processo nel quale il pontefice è intervenuto ‘a gamba tesa’ per influenzarne l’esito attraverso concessioni volte a favorire il promotore di giustizia vaticano, cioè la pubblica accusa – ad esempio, permettendo in deroga alla legislazione processuale l’adozione di provvedimenti cautelari e autorizzando intercettazioni all’epoca non previste nel Codice di rito applicato in Vaticano –, e che rischiano di compromettere la credibilità e la presenza dello Stato della Città del Vaticano e della Santa Sede nella comunità internazionale. Tra l’altro, ho recentemente scoperto dall’Annuario pontificio di quest’anno che sarei stata nominata giudice applicato della Corte di Cassazione vaticana: una nomina di cui, sorprendentemente, non ho avuto alcuna notizia – altrimenti non avrei potuto scrivere il parere sul processo – e che peraltro non posso accettare per incompatibilità con altro ruolo istituzionale da me oggi ricoperto. Insomma, ci sono alcuni problemi da risolvere a Roma: non, però, quello dell’invalidità della rinuncia di Benedetto XVI e dell’elezione di papa Francesco.

Bologna, 24 giugno 2024

Geraldina Boni

Curriculum vitae Professoressa Geraldina Boni: https://www.unibo.it/sitoweb/geraldina.boni/cv

Ricevuto e pubblicato da: canale Codice Rahner: https://www.youtube.com/@CodiceRahner il 19 Luglio 2024

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