Servus, Pater, et Angelus

Omelia nella Festa di San Carlo Borromeo di Mons. Carlo Maria Viganò Arcivescovo di Ulpiana ed ex Nunzio Apostolico negli Usa

SERVUS, PATER, ET ANGELUS

Omelia nella Festa di San Carlo Borromeo

Sacerdos et Pontifex,

et virtutum opifex.

Quattrocentoquarant’anni fa, il 3 Novembre del 1584, San Carlo Borromeo rendeva l’anima a Dio all’età di quarantasei anni. Apparteneva all’antica e nobile famiglia padovana dei Buon Romeo, che aveva il proprio castello e la contea ad Arona, sul Lago Maggiore. Tonsurato a soli sette anni, a partire dal Novembre del 1552 fu studente di diritto a Pavia, divenne dottore in utroque jure nel 1559. Votato alla Prelatura in quanto cadetto, iniziò la carriera ecclesiastica a ventidue anni, quando lo zio Giovanni Angelo de Medici – eletto Papa col nome di Paolo IV – gli conferì importanti incarichi: Abate commendatario di una dozzina di Abbazie, Legato delle Romagne, protettore del Regno di Portogallo e dei Paesi Bassi, Arciprete di Santa Maria Maggiore, Gran Penitenziere, amministratore della Diocesi di Milano, e poi Segretario di Stato. La vita del giovane Carlo fu dedicata al servizio della Chiesa e del Papato, sicché il cognome Buon Romeo pare perfettamente esprimere la fede del pellegrino che fa volta verso la Roma dei Martiri, la Roma di Pietro e Paolo, e la Roma della grande Riforma Cattolica e del Concilio di Trento.

Il suo ideale presbiterale consisteva nel creare un corpo, distinto dagli altri, le cui parti si collegavano organicamente e obbedivano tutte a una testa. «Voi siete i miei occhi, le mie orecchie, le mie mani» diceva Carlo ai suoi sacerdoti: questa metafora aveva in lui valore letterale. Fondò gli Oblati di Sant’Ambrogio, prendendo ad esempio le costituzioni degli Oratoriani di San Filippo Neri. La sua congregazione costituiva un corpo di volontari a disposizione del Vescovo, ben addestrati e formati, disposti ad assumere incarichi difficili e impegnativi. Gli Oblati vennero impiegati per la direzione dei Seminari e, soprattutto, per la predicazione delle missioni al popolo. Il loro carisma, nel quale si ravvisano molti elementi ignaziani, consisteva nel tenere viva una spiritualità contrassegnata dall’appartenenza al Clero diocesano, dal voto di obbedienza al Vescovo e dalla salvaguardia degli elementi propriamente ambrosiani.

La situazione della Chiesa nel Cinquecento non era delle migliori. Al decadimento morale dei laici e del Clero a causa della secolarizzazione indotta dalla cultura del Rinascimento – di netta impostazione neopagana, cabalistica ed esoterica nei ceti dirigenti – si accompagnava una scarsa formazione dottrinale. La corruzione della Curia Romana, presa a pretesto dagli eretici per attaccare il Papato, rendeva assai arduo il governo della Chiesa e ben poco efficace il ministero dei Pastori.

Il Concilio tridentino, cui Borromeo collaborò attivamente, giunse a sanare questa crisi ecclesiale con una grande riforma che diede nuovo impulso all’intera società, non solo sotto un profilo religioso, ma anche morale, culturale, artistico ed economico. Esso diede inizio alla fondazione dei Seminari, grazie ai quali i chierici erano preparati ad affrontare gli impegni sacerdotali nelle varie discipline ecclesiastiche. I Papi e i Vescovi tridentini si comportarono insomma in modo diametralmente opposto a ciò che fecero i Papi e i Vescovi del Concilio Vaticano II, che usarono il loro “concilio” non per combattere i nuovi errori, ma per introdurli nel sacro recinto; non per restaurare la sacra Liturgia, ma per demolirla; non per raccogliere il gregge cattolico intorno ai Pastori, ma per disperderlo e abbandonarlo ai lupi. Se San Carlo fu infiammato di amore per la Messa e per la Santissima Eucaristia – famose le sue omelie al popolo e le sue meditazioni al Clero su questo tema – i Vescovi di tre secoli dopo ne calpestarono l’eredità, indebolendo proprio quei due presidi dell’ortodossia cattolica che nuovamente erano minacciati dal neoprotestantesimo di cui essi si facevano promotori. Se San Carlo fu devoto fautore del culto mariano, del quale comprendeva la forte valenza antiprotestante, i fautori del Vaticano II cercarono in tutti i modi di indebolirlo, per favorire colpevolmente il dialogo ecumenico. E quei Seminari e Atenei che il Borromeo fondò per la difesa della Fede e la disciplina del Clero, trecento anni dopo divennero ricettacoli di ribelli e di fornicatori. E ciò non avvenne per un caso, ma per la deliberata e scellerata volontà di distruggere quel modello che si era rivelato incontestabilmente efficace, affinché la Chiesa Cattolica si ritrovasse come e peggio che nel Cinquecento.

Il modello dei beni fondiari di cui la famiglia Borromeo era proprietaria e il suo spirito genuinamente lombardo, ispirò San Carlo nel governo della Chiesa. La sua economia pastorale ne portò il segno e consistette nel distribuire “terre” a buoni fittavoli (i pastori), a visitarli e controllarli. Essa era geografica e territoriale, mirava ad un miglior rendimento in termini di raccolti e di “frutti” dei terreni – le parrocchie – affidati ad economi zelanti. L’insieme dei testi votati dal Concilio di Trento nel 1562-63 presentava l’ideale, offerto ad un’ambizione più alta e legato all’urgenza dei tempi, della eminente dignità e dei doveri del Vescovo. Per tutta la vita i Canones reformationis generalis di Trento ebbero per San Carlo il valore di una rivelazione decisiva. Egli assistette e collaborò alla produzione di questa immagine del Vescovo, uomo d’azione: «huomo di frutto et non di fiore, de’ fatti et non di parole» a dire del Cardinal Seripando. Il Borromeo non poteva concepire la Fede senza le opere – dottrina fondamentale del Tridentino, negata dal sola fides dai Protestanti – e la sua vita fu un monumento all’azione pastorale, nutrita di solida spiritualità e di un grande amore per il popolo, per i poveri, per i bisognosi. Anche in questo, significativamente, il suo esempio è eloquentissimo: il suo impegno nella cura degli appestati durante la peste che colpì Milano nel 1576-1577 lo portò a indire processioni penitenziali e a visitare e comunicare personalmente i malati nei lazzaretti. I pavidi cortigiani, figli del Vaticano II, che qualche anno fa si sono rintanati nelle loro Curie proibendo addirittura la celebrazione della Messa durante la farsa pandemica, dovrebbero arrossire di vergogna dinanzi allo zelo di San Carlo e del suo Clero.

Una regola data ai sacerdoti dal Tridentino era: Se componere (Conc. Trid., VIII, p. 965), conformarsi al ruolo, trasformarsi alla lettera: «È tanto il desiderio mio che hormai s’attenda ad exequir, poi che sarà confirmato questo Santo Concilio conforme al bisogno che ne ha la Christianità tutta e non più a disputare». Il Borromeo non fu teologo, né grande disputatore – motivo per cui non lo vediamo annoverato tra i Dottori della Chiesa – ma pastore, ossia fedele esecutore. «Noi vorremmo avere osservato diligentemente tutto ciò che è stato prescritto in tutti i Sinodi precedenti» disse nel 1584. E ancora: «La vita di un Vescovo deve regolarsi […] unicamente secondo le leggi della disciplina ecclesiastica». Quale abisso, cari fratelli, separa questa stirpe di santi Prelati da coloro che oggi ne hanno preso il posto! L’obbedienza di quelli si è mutata in ribellione di questi, la povertà in brama di beni e potere, la castità in vizi e fornicazione, la fedeltà al Magistero in ostentato incoraggiamento dell’eresia.

San Carlo sapeva anche scegliere i propri collaboratori, spesso sottraendoli ad altre Diocesi, al punto che San Filippo Neri, con la confidenza usuale tra Santi, lo chiama «ladro di Vescovi». Quando divenne Arcivescovo di Milano, nel 1564, egli indisse il Sinodo diocesano e raccolse i suoi milleduecento sacerdoti per dettar loro un programma di applicazione dei decreti tridentini e una serie di misure disciplinari (residenza, riduzione del numero dei benefici, moralità, studi ecclesiastici, pratiche pastorali) che non mancò di sollevare proteste, specialmente quando egli applicò multe pecuniarie ai chierici disobbedienti. Affidò il Seminario ambrosiano ai Gesuiti, continuando a vigilare e sorvegliare nei minimi dettagli la vita dei giovani che vi si formavano. L’istituto della Visita pastorale fu uno strumento che consentì a San Carlo di seguire la vita delle parrocchie, facendo sì che i Decreti del Concilio di Trento trovassero piena applicazione.

Quando nel 1565 morì lo zio Pio IV de Medici e nel 1566 venne eletto Pio V Ghisiglieri, il Borromeo si dedicò interamente alla cura animarum nella propria Diocesi. Qui combatté strenuamente il diffondersi delle eresie luterane, calviniste, zwingliane ed infine anabattiste che trovavano seguaci presso gli Agostiniani, i Francescani e i Domenicani. Ma contro le ribellioni, le sette, i carnevali e le concussioni – i suoi principali avversari – San Carlo preferiva i rigori della predicazione o della legge ecclesiastica, più che le interferenze del potere temporale, all’epoca sotto la dominazione spagnola. Forte dell’esempio del suo illustre predecessore Sant’Ambrogio, mai egli si piegò allo strapotere dell’autorità civile, alla quale non esitò a comminare anche la scomunica. Il Borromeo creò così un corpo d’élite, grazie a istituzioni modello in cui tutti i metodi applicati nella Diocesi potevano funzionare in modo esemplare: «Nihil magis necessarium aut salutare videri ad restituendum veterum ecclesiasticorum disciplinam quam Seminarii institutionem». Niente sembra più necessario o salutare per restaurare l’antica disciplina degli ecclesiastici che l’istituzione di Seminari. San Carlo si occupò delle vocazioni tardive, dei curati di villaggio, dei piccoli seminari, della formazione ecclesiastica nei cantoni Svizzeri limitrofi, il Ticino e i Grigioni. Ma l’élite che vi si formava non era quella della ricchezza o della nobiltà né quella del sapere: i poveri vi erano largamente ricevuti e finanziariamente aiutati. Contro la lethargia dei preti e dei Vescovi egli oppose l’ascesim, per farne servi, patres, et angeli. Servitori del Vescovo nel suo servizio dei fedeli; padri delle anime, sull’esempio dei Padri della Chiesa antica e dei loro successori; angeli, infine, per l’imitazione di un ordine gerarchizzato, per la castità che vale loro una posterità spirituale, e per il loro statuto di esseri separati. I balli o le superstizioni che egli soppresse, le sostituì non con discorsi, ma con gesti: guidò egli stesso le processioni di reliquie, si professò pubblicamente devoto dei Santi, si fece pellegrino della Sacra Sindone a Torino o della Vergine a Varallo, Varese, Saronno, Rho, Tirano o Loreto. E seppe essere tanto fiero Principe della Chiesa dinanzi ai potenti, quanto tenero Pastore del popolo cristiano, sempre senza mai umiliare la dignità di cui era insignito. Scrive eloquentemente di lui il nipote e successore sulla Cattedra milanese, Federico: «mai non si scardinalava, ed […] era un Vescovo che mai non si svescovava».

San Carlo, infine, fu colui grazie al quale nel 1575 venne ripristinato il venerabile Rito Ambrosiano, nel quale sono stato battezzato per immersione e in cui celebro quotidianamente il Santo Sacrificio. Ancora oggi sopravvive, nella sua versione non corrotta dalla pseudoriforma liturgica di Giovanni Battista Montini, in alcune chiese della Diocesi di Milano.

Invochiamo l’intercessione di San Carlo Borromeo – del quale mi onoro di portare il nome – in questi tempi dolorosi che travagliano la Santa Chiesa. Possa egli essere per noi modello ed esempio, specialmente per quanti di voi si apprestano ad ascendere i gradi dell’Ordine Sacro e per quanti sono già sacerdoti. Ci guidi nella nostra vita e nel nostro Ministero la dignità con cui San Carlo ricoprì importanti e delicati incarichi al servizio della Chiesa; la fermezza paterna con la quale seppe riformare il Clero e la disciplina ecclesiastica; la mansuetudine con cui istruì il gregge affidatogli dal Signore; la severità verso se stesso nell’orazione, nel digiuno e nella penitenza. Affidiamo alla sua protezione la Barca di Pietro, nave senza nocchiere in gran tempesta, perché implori dal Cielo nuovi santi Pastori che non si prostrino al mondo, ma a Cristo; che siano fedeli alla Santa Chiesa e al Papato Romano, e non asserviti ai nemici dell’una e dell’altro. E come abbiamo udito dal Vangelo di ieri, riponiamo la nostra fiducia in Nostro Signore, addormentato mentre i flutti minacciano di sommergere l’unica Arca di salvezza. Alle nostre preghiere risponda la voce serena del Salvatore, che comanda al mare e ai venti. Tempora bona veniant. E così sia.

+ Carlo Maria Viganò, Arcivescovo

4 Novembre MMXXIV a. D.ñi

S.cti Caroli Episcopi Mediolanensis et Confessoris

Versione in Lingua Francese:

SERVUS, PATER, ET ANGELUS

Homélie en la fête de Saint Charles Borromée

Sacerdoset Pontifex,

etvirtutumopifex.

Il y a 400 ans, le 3 novembre 1584, Saint Charles Borromée rendait son âme à Dieu à l’âge de 46 ans. Il appartenait à l’ancienne et noble famille padouane des Buon Romeo, dont le château et le comté se trouvaient à Arona, sur le Lac Majeur. Tonsuré à l’âge de sept ans, il étudia le droit à Pavie à partir de novembre 1552 et devint docteur in utroque jure en 1559. Élu à la prélature comme cadet, il commence sa carrière ecclésiastique à l’âge de vingt-deux ans, lorsque son oncle Giovanni Angelo de Medici – élu pape sous le nom de Pie IV – lui confie d’importantes charges : Abbé commendataire d’une douzaine d’Abbayes, Légat de Romagne, Protecteur du royaume du Portugal et des Pays-Bas, Archiprêtre de Santa Maria Maggiore, Grand Pénitencier, Administrateur du Diocèse de Milan et, enfin, Secrétaire d’État. La vie du jeune Charles fut consacrée au service de l’Église et de la Papauté, si bien que le nom de famille Buon Romeo semble exprimer parfaitement la foi du pèlerin tourné vers la Rome des martyrs, la Rome de Pierre et Paul, la Rome de la grande Réforme Catholique et du Concile de Trente.

Son idéal sacerdotal est de créer un corps, distinct des autres, dont les parties s’enchaînent organiquement et obéissent toutes à une tête. « Vous êtes mes yeux, mes oreilles, mes mains », disait Charles à ses prêtres : cette métaphore avait pour lui une valeur littérale. Il fonde les Oblats de Saint Ambroise, en s’inspirant des constitutions des Oratoriens de Saint Philippe Néri. Sa congrégation constituait un corps de volontaires à la disposition de l’Évêque, bien formés et instruits, prêts à assumer des tâches difficiles et exigeantes. Les Oblats étaient employés pour diriger les Séminaires et, surtout, pour prêcher des missions au peuple. Leur charisme, dans lequel on peut discerner de nombreux éléments ignatiens, consistait à maintenir vivante une spiritualité marquée par l’appartenance au Clergé diocésain, le vœu d’obéissance à l’Évêque et la sauvegarde des éléments spécifiquement ambrosiens.

La situation de l’Église au XVIe siècle n’était pas des meilleures. La décadence morale des laïcs et du Clergé due à la sécularisation induite par la culture de la Renaissance – avec une tendance nettement néo-païenne, cabalistique et ésotérique dans les classes dirigeantes – s’accompagnait d’une mauvaise formation doctrinale. La corruption de la Curie Romaine, utilisée comme prétexte par les hérétiques pour attaquer la Papauté, a rendu le gouvernement de l’Église très difficile et le ministère des Pasteurs inefficace.

Le Concile tridentin, auquel Saint Charles Borromée collabora activement, parvint à guérir cette crise ecclésiastique grâce à une grande réforme qui sut donner un nouvel élan à toute la société, non seulement d’un point de vue religieux, mais également d’un point de vue moral, culturel, artistique et économique. Elle est à l’origine de la fondation des Séminaires, grâce auxquels les clercs étaient préparés aux fonctions sacerdotales dans les différentes disciplines ecclésiastiques. En bref, les Papes et les Évêques tridentins ont eu un comportement diamétralement opposé à celui des papes et des évêques du Concile Vatican II, qui ont utilisé leur « concile » non pas pour combattre les nouvelles erreurs, mais pour les introduire dans l’enceinte sacrée ; non pas pour restaurer la Liturgie sacrée, mais pour la démolir ; non pas pour rassembler le troupeau catholique autour des Bergers, mais pour le disperser et l’abandonner aux loups. Si Saint Charles était enflammé d’amour pour la Messe et la très Sainte Eucharistie – ses homélies au peuple et ses méditations au clergé à ce sujet sont célèbres – les évêques de trois siècles plus tard ont piétiné son héritage, affaiblissant précisément ces deux garnisons de l’orthodoxie catholique qui étaient à nouveau menacées par le néo-protestantisme qu’ils étaient en train de promouvoir. Si Saint Charles était un fervent défenseur du culte marial, dont il comprenait la forte valeur anti-protestante, les partisans de Vatican II ont tenté par tous les moyens de l’affaiblir, afin de favoriser de manière coupable le dialogue œcuménique. Et les Séminaires et les Universités que Saint Charles fonda pour la défense de la Foi et la discipline du Clergé sont devenus, trois cents ans plus tard, des réceptacles de rebelles et de fornicateurs. Et cela n’est pas arrivé par hasard, mais par la volonté délibérée et malfaisante de détruire ce modèle qui s’était avéré incontestablement efficace, de sorte que l’Église Catholique se retrouve comme et pire qu’au XVIe siècle.

Le modèle de propriété terrienne de la famille Borromée et son esprit authentiquement lombard ont inspiré saint Charles dans le gouvernement de l’Église. Son économie pastorale en porte la marque et consiste à distribuer des « terres » à de bons locataires (les prêtres), à les visiter et à les contrôler. Elle était géographique et territoriale, visant un meilleur rendement en termes de récoltes et de « fruits » de la terre (les paroisses) – confiée à des intendants zélés. L’ensemble des textes votés par le Concile de Trente en 1562-63 présente l’idéal, offert à une ambition plus haute et lié à l’urgence des temps, de l’éminente dignité et des devoirs de l’Évêque. Tout au long de sa vie, les Canones reformationis generalis de Trente eurent pour Saint Charles la valeur d’une révélation décisive. Il fut le témoin et le collaborateur de cette image de l’Évêque, homme d’action : « huomo di frutto et non di fiore, de’ fatti et non di parole » [homme de fruits et non de fleurs, d’actes et non de paroles], selon les mots du Cardinal Seripando. Saint Charles ne pouvait concevoir la Foi sans les œuvres – doctrine fondamentale du Concile Tridentin, niée par les Protestants – et sa vie fut un monument d’action pastorale, nourrie d’une solide spiritualité et d’un grand amour pour le peuple, les pauvres et les nécessiteux. Dans ce domaine également, son exemple est éloquent : son engagement à soigner les pestiférés pendant la peste qui a frappé Milan en 1576-1577 l’a amené à convoquer des processions pénitentielles, à visiter personnellement les malades dans les lazarettos et leur porter la Communion. Les lâches courtisans, fils de Vatican II, qui, il y a quelques années, se sont retranchés dans leurs Curies et ont même interdit la célébration de la Messe pendant la farce pandémique, devraient rougir de honte devant le zèle de Saint Charles et de son Clergé.

Une règle donnée aux prêtres par le Concile tridentin était : Se componere (Conc. Trid., VIII, p. 965), se conformer au rôle, se transformer à la lettre: « È tanto il desiderio mio che hormai s’attenda ad exequir, poi che sarà confirmato questo Santo Concilio conforme al bisogno che ne ha la Christianità tutta e non più a disputare». Saint Charles n’était pas un théologien, ni un grand apologète – c’est pourquoi il ne figure pas parmi les Docteurs de l’Église – mais un Pasteur, c’est-à-dire un fidèle exécutant. « Nous voudrions avoir observé avec diligence tout ce qui a été prescrit dans tous les synodes précédents », dit-il en 1584. Et encore : « La vie d’un évêque doit être réglée […] uniquement selon les lois de la discipline ecclésiastique ». Quel fossé, chers frères, sépare cette lignée de saints prélats de ceux qui ont pris leur place aujourd’hui ! L’obéissance de ceux-ci s’est transformée en rébellion de ceux-là, la pauvreté en convoitise des biens et du pouvoir, la chasteté en vices et en fornication, la fidélité au Magistère en encouragement ostentatoire à l’hérésie.

Saint Charles savait aussi choisir ses collaborateurs, les soustrayant souvent à d’autres diocèses, au point que saint Philippe Néri, avec la confiance habituelle aux Saints, l’appelait « voleur d’évêques ». Devenu Archevêque de Milan, en 1564, il convoqua le Synode diocésain et réunit ses mille deux cents prêtres pour leur dicter un programme d’application des décrets tridentins et une série de mesures disciplinaires (résidence, réduction du nombre de bénéfices, moralité, études ecclésiastiques, pratiques pastorales) qui ne manquèrent pas de soulever des protestations, surtout lorsqu’il appliqua des amendes pécuniaires aux ecclésiastiques désobéissants. Il confia le Séminaire Ambrosien aux Jésuites, continuant à veiller et à superviser en détail la vie des jeunes gens qui y étaient formés. L’institution de la Visite pastorale fut un instrument qui permit à saint Charles de surveiller la vie des paroisses, en veillant à ce que les décrets du Concile de Trente soient pleinement mis en œuvre.

Lorsque son oncle Pie IV de Médicis mourut en 1565 et que Pie V Ghisiglieri fut élu en 1566, Charles se consacra entièrement à la cura animarum dans son propre Diocèse. Il y combattit vigoureusement la propagation des hérésies luthériennes, calvinistes, zwingliennes et enfin anabaptistes qui trouvaient des adeptes parmi les Augustins, les Franciscains et les Dominicains. Mais contre les rébellions, les sectes, les carnavals et les concussions – ses principaux adversaires – Saint Charles préféra les rigueurs de la prédication ou de la loi ecclésiastique, plutôt que l’ingérence du pouvoir temporel, alors sous domination espagnole. Fort de l’exemple de son illustre prédécesseur Saint Ambroise, il ne s’est jamais incliné devant le pouvoir écrasant de l’autorité civile, à laquelle il n’hésitait pas à imposer même l’excommunication. Il créa ainsi un corps d’élite, grâce à des institutions-modèles dans lesquelles toutes les méthodes appliquées dans le Diocèse pouvaient fonctionner de manière exemplaire : « Nihil magis necessarium aut salutare videri ad restituendum veterum ecclesiasticorum disciplinam quam Seminarii institutionem ». Rien ne semblait plus nécessaire ni plus salutaire pour restaurer l’ancienne discipline du Clergé que l’établissement de Séminaires. Saint Charles s’occupa des vocations tardives, des curés de village, des petits séminaires et de la formation ecclésiastique dans les cantons suisses voisins du Tessin et des Grisons. Mais l’élite qui s’y formait n’était ni celle de la richesse ou de la noblesse, ni celle du savoir : les pauvres sont largement accueillis et aidés financièrement. À la lethargia des prêtres et des évêques, il oppose l’ascesim, pour en faire des servi, patres, et angeli. Serviteurs de l’Évêque dans son service aux fidèles ; pères des âmes, à l’instar des Pères de l’Église primitive et de leurs successeurs ; anges, enfin, par leur imitation d’un ordre hiérarchique, par leur chasteté qui leur vaut une postérité spirituelle, et par leur statut d’êtres mis à part. Les danses ou les superstitions qu’il supprimait, il les remplaçait non par des discours, mais par des actes : il menait lui-même des processions de reliques, professait publiquement sa dévotion aux Saints, se faisant pèlerin du Saint Suaire à Turin ou à la Vierge à Varallo, Varèse, Saronno, Rho, Tirano ou Loreto. Et il sut se montrer aussi fier Prince de l’Église devant les puissants que tendre Pasteur du peuple chrétien, toujours sans jamais rabaisser la dignité dont il était revêtu. Son neveu et successeur dans la Chaire milanaise, Federico, a écrit avec éloquence à son sujet : «mai non si scardinalava, ed […] era un Vescovo che mai non si svescovava».

Enfin, c’est à saint Charles que l’on doit la restauration, en 1575, du vénérable Rite Ambrosien, dans lequel j’ai été baptisé par immersion et dans lequel je célèbre quotidiennement le Saint-Sacrifice. Il survit encore aujourd’hui, dans certaines églises du diocèse de Milan, dans sa version non corrompue par la pseudo-réforme liturgique de Giovanni Battista Montini.

Invoquons l’intercession de Saint Charles Borromée – dont j’ai l’honneur de porter le nom – en ces temps douloureux qui affligent la Sainte Église. Qu’il soit pour nous un modèle et un exemple, en particulier pour ceux d’entre vous qui se préparent à gravir les dégrées de l’Ordre sacrés et pour ceux qui sont déjà prêtres. Puissions-nous être guidés dans notre vie et dans notre ministère par la dignité avec laquelle Saint Charles a exercé des fonctions importantes et délicates au service de l’Église ; par la fermeté paternelle avec laquelle il a su réformer le Clergé et la discipline ecclésiastique ; par la douceur avec laquelle il a instruit le troupeau que le Seigneur lui avait confié ; par la sévérité envers soi-même dans la prière, le jeûne et la pénitence. Confions à sa protection la Barque de Pierre, nave senza nocchiere in gran tempesta [navire sans capitaine dans une grande tempête], afin qu’il puisse implorer du Ciel de nouveaux saints Pasteurs qui ne se prosternent pas devant le monde, mais devant le Christ, qui soient fidèles à la Sainte Église et à la Papauté Romaine, et non pas soumis aux ennemis de l’une et de l’autre. Et comme nous l’avons entendu dans l’Évangile d’hier, mettons notre confiance en Notre Seigneur, endormi dans la barque, alors que les vagues menacent de submerger l’unique Arche de salut. Que nos prières soient exaucées par la voix sereine du Sauveur, qui commande à la mer et aux vents. Tempora bona veniant. Qu’il en soit ainsi.

+ Carlo Maria Viganò, Archevêque

4 novembre MMXXIV a. D.ñi

S.cti Caroli Episcopi Mediolanensis et Confessoris

Ricevuto e pubblicato il 5 Novembre 2024

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