Recensione del 15 Marzo 2018. Lo spettacolo deve continuare, the show must go on, come proclamavano al pubblico gli impresari circensi dopo ogni incidente. Adesso sanno fare di meglio, trasformano in spettacolo anche i drammi, le tragedie, la morte!
Nel suo libro L’uomo è antiquato Guenther Anders mise in guardia dai mezzi di comunicazione di massa che cessano di essere mezzi in quanto descrivono un mondo fuori dal quale non è dato avere altra esperienza, né altra libertà “se non prendere parte o starsene in disparte”. Ma il senso di tutto non è più la realtà, ma la sua rappresentazione. Lo spettacolo del mondo ha raggiunto ogni attimo della vicenda umana. Per Guy Debord lo spettacolo non è il dominio delle immagini “ma un rapporto sociale tra individui, mediato dalle immagini, una visione del mondo che si è oggettivata”. Esso è per lui sia mezzo sia fine del modo di produzione vigente. Debord, influenzato dal marxismo, scriveva nel 1967 e il suo linguaggio è datato. Resta tuttavia la capitale intuizione della realtà che sfuma nello spettacolo, la spettacolarizzazione generale che prende in alcuni momenti il posto della religione, fungendo da sorvegliante del sonno della “società moderna incatenata”.
Il caso della morte di Davide Astori ci sembra la dimostrazione di quanto dianzi enunciato. Astori, per quanti riescono a vivere in disparte, era il capitano della squadra di calcio della Fiorentina, morto a 31 anni nell’albergo del ritiro pre partita, nel pieno della giovinezza, della salute e del successo sportivo. A nulla vale, nella società secolarizzata, evocare il verso di Menandro “muor giovane colui che al cielo è caro” posto in epigrafe da Giacomo Leopardi al suo Amore e Morte. Lo sbigottimento per una morte tanto repentina è stato grande, come il compianto per un giovane che lascia una figlioletta e la compagna, ex concorrente del Grande Fratello.
Ciò che lascia stupefatti è che la sua vicenda sia diventata una puntata in più dello spettacolo mediatico no stop in cui è trasformata la vita. Campionati fermati la domenica della scoperta del cadavere, doveroso, ma poi una settimana intera sotto i riflettori di un’emotività popolare provocata, indotta, realizzata dal sistema di intrattenimento che ci domina. Non intendiamo cedere alla tentazione difensiva di premettere il nostro cordoglio, il rispetto e l’ammirazione per il difensore della nazionale di calcio, la rituale condivisione del dolore al giudizio negativo per lo sfacciato baccano mediatico seguito alla sua morte. Il fatto per noi riprovevole è che sia stata suscitata ad arte non la sensibilità popolare, ma un’emotività vaga e irritante, assai simile alla reazione pavloviana dopo gli atti terroristici. Sguardi vuoti, volti di circostanza, bigliettini intrisi di retorica da Baci Perugina, retorica a fiumi. Nella fattispecie, sciarpe viola, il colore della Fiorentina che è anche quello della Quaresima (qualcuno lo avrà notato?), dichiarazioni lacrimose, sguardi rivolti verso un cielo in cui non credono.
La morte, lo sappiamo, è il grande rimosso del nostro tempo. Non si deve vedere, né se ne deve parlare. Avviene in luoghi deputati, ospedali e cliniche, amministrata con personale specializzato, in stanze sterilizzate. Quando tocca all’improvviso, per di più a un giovane, dovrebbe essere ancor più circondata dal senso di rispetto, riflessione e mistero che sempre ha avvolto la fine della vicenda terrena dell’essere umano. Non più, anche questo è cambiato, la morte è uno spettacolo tra i tanti.
Il povero Astori era, come calciatore professionista, un uomo di spettacolo, un attore della rappresentazione. In campo aveva un doppio ruolo, difensore e capitano. La sua identità personale, come quella di ciascuno di noi, era data dalle prestazioni svolte nel mondo risolto in mercato. Ruolo si chiamava un tempo il rotolo di pergamena su cui l’attore di teatro leggeva la sua parte. Oggi la nozione di ruolo vale per definire l’identità sociale e pubblica, distinta da quella personale. Nell’odierna società dello spettacolo, le due identità si ricompongono nel finale. Astori era il capitano della Fiorentina, per cui la salma è stata esposta nel tempio dedicato alla rappresentazione dello spettacolo sportivo, lo stadio del calcio, con grande partecipazione di folla, desiderosa sì di esprimere cordoglio, ma soprattutto di “esserci”, partecipare come fondale all’evento.
Di qui il gran numero di foto e “selfie” postati sui social media (“io c’ero”, “che emozione”, “ho pianto”), i colori della squadra a sovrastare la severità del dolore. Poi si è svolto il funerale in un sito altamente simbolico di Firenze, la basilica di Santa Croce dove si trovano le tombe di molti grandi italiani, il luogo che ispirò al Foscolo i suoi Sepolcri, per l’occasione utilizzata come “location”. Piazza gremita, cori, fiori, bandiere sportive, il colore viola a dominare, ma anche la sfilata delle altre squadre e di campioni come Gigi Buffon, applaudito per una volta nella città nemica della sua squadra, le frasi fatte e gli sguardi dolenti degli industriali Della Valle, proprietari della Fiorentina, la messa celebrata dall’arcivescovo, il cardinale Betori.
Temiamo che alla chiesa sia rimasto un ultimo palcoscenico nel gran teatro post moderno, la parte di officianti del pietoso rito della sepoltura. Paramenti antichi, l’aspersorio, l’elogio funebre con rari accenni al senso cristiano della morte. Il protagonista involontario era famoso, per lui si è scomodato un cardinale.
Ultimo atto, la partita domenicale. Grandi preparativi, gadget, una regia sapiente, le bandiere a formare il nome del capitano, il pubblico nettamente superiore alla media allo stadio fiorentino progettato da Pier Luigi Nervi, esempio del razionalismo italiano, spettatori con gli occhi lucidi, lo speaker impegnato a officiare un altro rito, quello dell’ultimo ricordo sportivo. Puro spettacolo, commozione intensa, vince la Viola come da copione, dissolvenza, tutti a casa. Intanto il corpo di Astori è ormai nel cimitero del paese d’origine, San Pellegrino in Val Brembana.
La musica è finita, lo spettacolo deve continuare, organizzatori, protagonisti e figuranti si spostano altrove. Ci sarà sempre un’altra rappresentazione da offrire al pubblico, altre emozioni da suscitare, qualche lacrima, e poi via, verso nuove avventure, funerali o feste, è lo stesso. E’ il mondo degli emoticon, le faccine gialle dello smartphone che ormai quasi tutti poniamo nei nostri sbrigativi messaggi via SMS o whatsapp. Ce ne sono per tutte le occasioni e per ogni sentimento, vero o falso: l’emoticon può ridere, piangere, cambiare espressione, diventare triste, perplesso, corrucciato, pensoso, felice, indignato, sorpreso, malizioso. Non di rado i nostri messaggi, più spesso le risposte sono formate esclusivamente da emoticon. La sensibilità si è mutata in emozione, la parola cede all’afasia o all’ideogramma preconfezionato. Un invio ed è fatta.
La morte di un giovane uomo è diventata operazione di marketing, cerimonia pagana, quasi un autodafé della nuova divinità, il mercato che si fa spettacolo e, con lo sport, ingoia ed incorpora la tragedia, una puntata in più della rappresentazione che deve andare in scena. Grande assente, il silenzio, il capo chino, lo stupore pensoso che ci coglie dinanzi alla morte. L’esorcismo laico, apparentemente, è riuscito ancora una volta. Un grande giornalista sportivo, Gianni Brera, quando scriveva di uno sportivo morto concludeva il suo pezzo, mai un semplice “coccodrillo”, ma un magistrale esercizio di scrittura e cultura con l’antica locuzione latina “che la terra ti sia lieve”.
E’ quello che auguriamo a Davide Astori, troppo giovane per morire, troppo normale, crediamo, per gradire la danza macabra messa in scena attorno alla sua fine. Lo spettacolo deve continuare, the show must go on, come proclamavano al pubblico gli impresari circensi dopo ogni incidente. Adesso sanno fare di meglio, trasformano in spettacolo anche i drammi, le tragedie, la morte. Applausi.
Roberto Pecchioli il 15 Marzo 2018