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Pansa, la verità e la storia di Roberto Pecchioli

Recensione del 14 Gennaio 2020. Giampaolo Pansa è stato probabilmente la personalità che, con le armi che aveva, la sua penna acuminata, la sua coscienza di uomo libero, più ha fatto, negli ultimi vent’anni, per sgombrare il campo da macerie vecchie e marcite, da narrazioni di parte, lavorando a quella ricomposizione degli spiriti che è la premessa per una storia condivisa.

In una nazione senza memoria, ha poca fortuna chi studia la storia e scrive la verità. Potrebbe essere questa la chiave per raccontare la vicenda umana e professionale di Giampaolo Pansa, il giornalista e scrittore piemontese scomparso a Roma all’età di 84 anni. Eppure, ricordandolo così, facciamo torto a un percorso che ha attraversato oltre mezzo secolo, dall’inizio degli anni Sessanta, quando Pansa si laureò nella Torino della Fiat, dell’editore Einaudi e della cultura improntata dal Partito d’Azione, con una tesi sulla storia della resistenza. Una sorta di premonizione rispetto al percorso della sua maturità, allorché, dopo una prestigiosa carriera sulle maggiori testate della stampa italiana, tra cui Repubblica, che contribuì a fondare, cambiò la percezione comune della storia patria con il ciclo letterario dedicato ai vinti della guerra civile che insanguinò l’Italia tra il 1943 e molto oltre il 1945.

Lui, giornalista di sinistra, anche se non organico al PCI, osò l’inosabile nel 2002, con I figli dell’aquila, il racconto di un volontario della Repubblica Sociale Italiana. Il successo di pubblico fu enorme, tanto da fargli continuare il “ciclo dei vinti”, una serie di libri, scritti in una strana forma, un misto tra romanzo, saggio e feuilleton, relativi alle violenze compiute dai partigiani sui fascisti durante e dopo la guerra e le storie personali e familiari dei “vinti”. Quei libri, specialmente il più famoso, Il Sangue dei vinti, furono un pugno nello stomaco per tanta gente, un soffio d’aria pura per altri. Parlavano finalmente a un popolo intero, meravigliato ma attento, non solo ai superstiti e alle loro famiglie.

Un patrimonio di dolore celato, di memoria dolente e nascosta, serbata nell’animo, condivisa solo all’interno della comunità umana e politica che rappresentò solitaria per oltre mezzo secolo il punto di vista di quell’altra Italia, quella che la guerra la perse tre vote. Una volta nel confronto impari con gli anglo americani, una seconda nella difesa disperata del fascismo e del suo capo, la terza nelle sue ragioni ostinatamente negate, derise, espulse dalla storia, demonizzate. Il sangue dei vinti completò il successo editoriale di Pansa, insieme con Sconosciuto 1945, La Grande Bugia e I vinti non dimenticano.

Per quell’opera di storia, verità e riscatto, l’Italia intera dovrebbe ringraziare il figlio della sarta di Casale Monferrato, Piemonte ruvido avvolto nella nebbia, città di militari, di operai feriti dall’Eternit, l’azienda che ha prima sfamato e poi ucciso con il cancro di tanti suoi figli, di un’antica comunità ebraica. Invece no. A parte i consueti “coccodrilli” dei colleghi, oggi a celebrare Pansa, uomo di sinistra ed antifascista, sono soprattutto i suoi avversari di un tempo. Nessun perdono per chi svela certe verità. Chi tocca i fili muore, o almeno è espulso con ignominia dalla società dei Buoni e dei Giusti. Pansa l’aveva imparato già anziano, dopo una carriera piena di meritati successi. La storia complicata del paese chiamato Italia ha diversi buchi neri, ma nessuno è più nero di “quel” ventennio, della guerra perduta e della guerra civile negata.

Prima di Giampaolo Pansa ne avevano scritto altri, sfidando il muro di ferro di una verità ufficiale assai diversa dalla realtà, fatta di menzogne e ricostruzioni obbligatorie. La Pravda al posto della verità. Nessuno fu ascoltato: erano tutti “dell’altra parte”, quella nera, brutta, sporca, cattiva. Erano i perdenti, a cui era negato il diritto a versare lacrime e a spiegare il loro punto di vista. Dimenticato, negato senza vergogna il “triangolo rosso” emiliano, le stragi a guerra finita – Oderzo, Rovetta, Codevigo, Schio, Monte Manfrei –  sono solo alcuni degli episodi, nomi senza significato per milioni di connazionali prima di Pansa. L’irruzione del giornalista piemontese è stata una gomitata in pieno volto ai custodi di un silenzio tenace, la cui testimonianza era ed è nella carne di una parte non piccola di italiani sconfitti, messi a tacere.

Sepolti o abbandonati i morti, ma sepolti anche i vivi, condannati all’esilio nella Patria che avevano amato e che erano convinti di aver difeso. Trascinati nell’oblio o nell’odio insieme con i familiari; migliaia di storie che Pansa ha recuperato, ricostruito, con l’aiuto di chi non ha dimenticato e ha preso su di sé il fardello di raccontare quella storia da quell’altro vietato, vietatissimo, punto di vista. Un manipolo di poligrafi, storiografi e testimoni ha collaborato disinteressatamente con il giornalista venuto dalla parte opposta, messo a disposizione documenti, opere divulgative e fatto da tramite con tanta gente, i vinti. Tra loro, ci piace ricordare Carlo Viale, uno che ha dedicato la vita allo studio della RSI, alle sue storie, ai caduti e dispersi, a dare degna sepoltura, assistere le famiglie.

C’è un’Italia sommersa, ridotta al silenzio e alle catacombe per oltre mezzo secolo nelle pagine di Giampaolo Pansa. Altri prima di lui non avevano taciuto, giornalisti, storici e uomini politici come Giorgio Pisanò o Enzo Erra, ma chi dà retta alla voce dei perdenti, di chi aveva vestito la divisa sbagliata? La verità si è fatta strada solo perché è stata narrata da uno di “loro”. Di fronte a Pansa, giornalista rispettato, prestigioso, con una storia di sinistra, la congiura del silenzio non poteva funzionare. Smascherati, hanno reagito nel solito modo: prima hanno negato, poi hanno iniziato con il coro assordante degli insulti, delle ingiurie, degli attacchi velenosi, delle intimidazioni, delle aggressioni anche fisiche per impedire la presentazione dei libri.

Era la prova che Pansa aveva colto nel segno, proprio un piemontese allievo di gran sacerdoti dell’antifascismo “azionista” torinese come Alessandro Galante Garrone. Di più: Pansa fu con Scalfari tra i fondatori dell’organo della sinistra progressista borghese La Repubblica, il giornale del giuramento antifascista e delle porte sbarrate a chiunque non condividesse la vulgata dell’Italia ufficiale, “laica, democratica, antifascista”, come recitava la litania lauretana di lorsignori e lorcompagni.

Quei libri, quel sangue dei vinti finalmente ammesso e lavato, sono la prova non solo della falsità storica su cui si è fondata l’Italia del dopo 1945, sconfitta ma vincitrice, bombardata e occupata ma felice, sino a festeggiare, unica nazione al mondo, una sconfitta rovinosa riconfigurata, con un atto di sorprendente acrobazia, in liberazione da un governo, anno zero, la tabula rasa da cui riscrivere una nuova Storia. Il re repubblicano era sempre stato nudo, ma perché finalmente lo si cominciasse ad ammettere, ci volle un giornalista ormai pensionato, che forse voleva pagare il suo personalissimo debito con la verità. Non cambiò opinione, lo spigoloso monferrino: non è diventato fascista in vecchiaia, né ha rinnegato le sue idee. Semplicemente, ha detto e dimostrato a voce alta, prove alla mano, ciò che molti sapevano e neppure sussurravano.

Quel terribile periodo della guerra civile, tra torti e ragioni, eroismi e vigliaccherie, generosità ed assassinio di fratelli, non fu la fulgida lotta di un popolo di prodi contro una cricca criminale, ma un confronto tremendo, un carico di odio reciproco dal quale, a guerra finita, la nazione avrebbe dovuto uscire chiedendosi scusa, perdono per il male, il rancore, il dolore. In una guerra civile, non ci sono santi e demoni, ma parti in lotta senza esclusione di colpi. Per questo le ferite devono essere curate in fretta o diventano cancrena. Da noi, la cancrena è ancora in corso: antifascisti in assenza di fascismo scorrazzano per le strade, occupano gli schermi televisivi e pontificano con la mano sul cuore. Anticomunisti in assenza di comunismo hanno minore visibilità, ma raccontano a se stessi una storia esaurita da trent’anni.

E’ un dramma civile e nazionale dalle colpe antiche. Giampaolo Pansa è stato probabilmente la personalità che, con le armi che aveva, la sua penna acuminata, la sua coscienza di uomo libero, più ha fatto, negli ultimi vent’anni, per sgombrare il campo da macerie vecchie e marcite, da narrazioni di parte, lavorando a quella ricomposizione degli spiriti che è la premessa per una storia condivisa. E’ significativo che il suo apporta esca da quello stesso mondo che ha tanto lavorato per gettare sale sulle ferite, per torcere vicende, storie ed avvenimenti in una narrazione di cui pretendeva l’esclusiva e che ha posto a fondamento di una storia nazionale falsa. Hanno nascosto non solo la guerra civile, i fascisti della RSI con i suoi seicentomila militi, i suoi morti, ma anche l’esercito del Sud, i bombardamenti dei “liberatori”, il ruolo della mafia, il ruolo preponderante, pressoché esclusivo, degli eserciti stranieri alleati nell’esito della guerra.

Occorreva azzerare il passato, tutto il passato, non solo quello in camicia nera. Non funziona così: erede della sua storia, anche della più controversa, è sempre un popolo intero. Per questo, i confronti civili lasciano ferite tanto profonde, se non si cerca di cicatrizzarle in un nuovo inizio.  C’è voluto un fondatore del giornale più inserito nel potere, più vicino all’ufficialità culturale e storica di 70 anni di storia italiana per squarciare il velo e mostrare, finalmente, le ferite nascoste, le verità mai dette, i dolori, le umiliazioni e il lungo esilio di una parte non piccola del nostro popolo.

A Genova, nel cimitero di Staglieno, un sacrario collettivo accoglie i resti di circa 1.500 morti della parte che “aveva torto”. Recuperati con pazienza e coraggio da donne e uomini animati da pietà e non da vendetta, sono testimoni silenziosi di una tragedia davanti alla quale vale solo il rispetto. Una vedova di guerra ci raccontò la sua emozione davanti ai resti di una giovanissima ausiliaria, una ragazza della classe 1924, uccisa a bruciapelo con un colpo alla nuca. Della sua vita erano rimaste poche ossa, i documenti, un pettine e una spazzola per capelli, muti testimoni della grazia giovanile di una vita spezzata.

A quella sconosciuta ci sentiamo di dedicare un saluto, come a qualunque uomo o donna morto per un’idea coltivata in buona fede. Strano davvero che agli italiani brava gente sia stato necessario tanto tempo, tanto odio, tanto dolore, per accogliere il racconto di Giampaolo Pansa, l’avversario che abbiamo imparato a rispettare. Quali siano state le sue ragioni, le sue idee e la sua vita, che la terra sia lieve a Giampaolo Pansa, testimone della storia, testimone della verità per un’Italia che non dimentichi più nulla e rispetti tutti i suoi figli. 

Roberto Pecchioli il 14 Gennaio 2020

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